giovedì 31 dicembre 2015

Clayton Rawson – Da un’altro mondo (From Another World, 1948) - trad. Attilio Veraldi - in "La Quintessenza di Ellery Queen" a cura di Anthony Boucher - Feltrinelli, 1965

 
3814897385.jpgTra tutti i racconti presentati nell’antologia italiana (ridotta), tratta da quella approntata da Boucher, io parlerò del racconto di Clayton Rawson.
Per me Rawson è il solo autore, che nell’ambito dei misteri della Locked Room, possa stare e storicamente e inventivamente alla pari di Carr, sullo stesso suo piano. In sostanza, Rawson, che ha un evidente gap di qualità letteraria delle sue storie, sempre troppo fredde, prive di quell’afflato divino che hanno le opere carriane, dense di straordinarie atmosfere, annullano il gap in forza di una straordinaria inventiva che ammutolisce i più scettici, derivante dall’attività principale di Rawson, quella di illusionista.
Alcuni critici, soprattutto americani, per esempio Mike Grost, lo sottovalutano, perché nella struttura del testo, non dà importanza a determinati soggetti, per esempio i testimoni, o non enfatizza le descrizioni, sminuendo queste componenti all’essenziale e concentrando invece tutta la sua attenzione sull’immaginazione del plot. Rawson, in altre parole, focalizza la sua attenzione sulla ricerca di tutti quegli effetti atti a stupire a tutti i costi il lettore proponendo delle sfide impossibili, fatte di piccoli particolari, che rendono però le sue opere, a mio parere, assolutamente visionarie. Un po’ come quello che accade in certi romanzi di Paul Halter, scrittore che condivide una certa dicotomia di giudizi, alcuni troppo entusiastici, altri troppo critici. Non a caso l’illusione entra di prepotenza in molte sue opere che sono dei veri e propri capisaldi del mystery più cerebrale, quello della Camera Chiusa.
Tra i racconti presentati nella straordinaria antologia di Boucher, La Quintessenza di Ellery Queen, definita al tempo della pubblicazione, dal New York Times, “The best anthology of mystery stories that has ever been published”, quello che per me, meglio può rappresentare la visionarietà più estrema dell’immaginazione, è lo strepitoso From Another World (inserito nella raccolta, pubblicata postuma, del 1979, “The Great Merlini”, ma pubblicato originariamente nel 1948), tradotto in italiano col titolo “Da un altro mondo”.
Qui in sostanza c’è un mistero proposto a Il Grande Merlini, un grande illusionista, che ogni tanto aiuta la polizia, al risolvere autentiche sfide impossibili.
Andrew Drake è un riccone, che, come tutti i ricconi in America, fa beneficenza. Si è messo prima a strombazzare che sovvenzionerà ricerche sul cancro della portata di 15 milioni di dollari, ma ora si è messo in testa di sovvenzionare la PES (o ESP), cioè le Percezioni Extra Sensoriali. Qualcuno gli sta cercando di far credere che potrebbe, con la forza del pensiero, materializzare dal nulla delle cose reali: è Rosa Rhine, una famosa medium. Rosa mira però a ben altro: vorrebbe irretirlo, per riuscire a sposarlo e sistemarsi “vita natural durante”. Perciò organizza un bello spettacolino: alla presenza di Drake, materializzerà delle cose che non esistono nella stanza. Tuttavia, qualcosa non va nel verso giusto. Infatti, Ross, amico di  Merlini e narratore delle avventure di quello, è invitato a casa Drake, ma, giunto dinanzi alla porta di casa, si trova un tal Garrett, medico, che sta cercando di suonare al campanello di casa, estremamente preoccupato. Gli racconta di aver ricevuto una telefonata poco prima da Drake che, rantolando, gli mormorava di stare per morire.
Entrati in casa, si trovano dinanzi ad una prima impossibilità: Drake è chiuso nella sua stanza e non c’è modo di entrarvi. Per cui, cercano di entrare abbattendo la porta. Quando vi riescono, Ross sente un rumore di carta stracciata. Immediatamente dopo entrambi sono dentro la stanza, e trovano Drake morto, pugnalato, con un telefono rovesciato vicino, due lumache sul tavolo, e la bella Rosa Rhine, in un costume da bagno aderentissimo, svenuta. Nessun altro nella stanza. Ross Harte, il narratore, amico di Merlini, quando è entrato nella stanza, si è accorto che l’unica finestra è stata sigillata con carta gommata, e che pure la porta lo era, prima che loro entrassero, sfondando porta e stipite. Appena cercano di risvegliare la bella medium, quella comincia a gridare a più non posso, segno di shock.ellery_queens_mystery_194806.jpg
Ovviamente, Homer Gavigan, Ispettore della Polizia di New York, non crede alla sua innocenza; l’unico che prenda in esame la sua estraneità alla vicenda è Merlini. Tuttavia la bella Rosa stava cercando di buggerare il vecchio Drake col trucco delle cose ingoiate e poi ributtate fuori, quando dev’essere accaduto qualcosa: lei si ricorda solo che il vecchio aveva un’espressione sorpresa e spaventata (poco prima che lei perdesse i sensi, per un colpo alla nuca) per qualcosa che aveva visto alle spalle di lei. Gavigan non ci crede, mentre Merlini è perplesso.
Le prove a discapito della bella Rosa sembrerebbero schiaccianti : è stata trovata assieme al cadavere del vecchio, in una stanza non chiusa semplicemente ma sigillata dal di dentro, senza che altri siano stati trovati al di dentro o che siano potuti scappare; non ci sono aperture o porte segrete nascoste; per sigillare la stanza è stata usata della carta gommata, poi trovata lacerata intorno alla sagoma della porta; l’arma dell’assassinio infine è stata trovata: si tratta di un tagliacarte di bronzo sporco di sangue. Cosa volere di più? Dirà Ross Harte all’amico: “…Una stanza sigillata, Merlini. Una stanza sigillata che sfida tutte le stanze sigillate” (op. cit. pag.129). Come dire insomma..”il massimo del genere”.
Ma la cosa strana agli occhi di Merlini (e anche del lettore) è che Rosa Rhine era forse l’unica persona nel parco di quelle con un qualche interesse per la morte del vecchio Drake, a non averne: è evidente che uccidendolo, uccideva “la sua gallina dalle uova d’oro”. Mentre per Paul Kendrick, innamorato di Elinor Drake, la morte del vecchio spiana il suo matrimonio con Elinor, che il milionario non accettava. E ovviamente anche Elinor in fondo trae benefici dalla morte del padre. E Isabelle Potter, la segretaria della Società di Ricerche Psichiche, che ha accompagnato a casa Drake, Rosa, c’entra qualcosa? Aveva parlato di entità maligne che avrebbero sopraffatto quelle benigne evocate dall’amica e poi ucciso Drake. E Garrett c’entra qualcosa? Ma se il vecchio fosse morto lui avrebbe ricevuto un danno, perché perorava le ricerche sul cancro. Insomma..un bel coacervo di sospetti, sospettabili e innocenti, non si sa fino a che.
 E’ evidente che per venirne a capo Il Grande Merlini dovrà estrarre dal suo cappello a cilindro una soluzione a prova di bomba, che soddisfi le due impossibilità:
1) stanza chiusa dal di dentro anzi sigillata con carta gommata
2) nessun altro al dentro della stanza eccetto il cadavere ed il(la) probabile assassino(a).
La due impossibilità diventano addirittura tre quando si scopre dall’autopsia che il colpo inferto al torace a Drake, ha colpito una costola: l’arma in altre parole si è spuntata. Non ci sarebbe grande stupore se non si scoprisse che..la punta di metallo estratta dalla costola non è di bronzo ma di acciaio. Insomma…un’arma trovata che sembrerebbe ora non essere l’arma dell’omicidio ed un’altra arma..fantasma, sparita dalla scena del delitto. Così le impossibilità diventano tre:
1) stanza chiusa dal di dentro anzi sigillata con carta gommata
2) nessun altro al dentro della stanza eccetto il cadavere ed il(la) probabile assassino(a).
3) arma fantasma.
Il Grande Merlini risolverà il rompicapo fornendo una spiegazione semplicissima, perché in sostanza tutto il plot – egli spiegherà – si basa su un’illusione. Dopo aver escluso via via gli altri, indicherà in X il vero assassino, partorendo una soluzione, che in fondo tiene conto dello storico detto holmesiano, datato ma sempre valido: “When you have eliminated the impossible, whatever remains, however improbable, must be the truth (=Quando hai eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità) . La celebre sentenza di Holmes, verrà migliorata da Merlini che esclamerà : “Non credere a tutto ciò che vedi è un ottimo consiglio; ma ce n’è uno ancora migliore: Non credere a ciò che pensi” (op. cit. pag.143).
E’ opinione diffusa che Clayton Rawson abbia eccelso nei racconti, perché probabilmente soddisfacevano alla sua volontà di creare un problema virtualmente irrisolvibile, per poi fornirne la soluzione, in poche pagine, senza stare a dilungarsi in descrizioni psicologiche e di luoghi, in artifici di stile, in stravolgimenti della trama che generassero tensione, perché non ne possedeva le qualità, cioè non era un romanziere. Questa opinione è parecchio squilibrata, perché il suo primo romanzo, Death From a Top Hat, che un giorno esaminerò, pur essendo in effetti un po’ gelido, è un fuoco pirotecnico di impossibilità e di artifici spacca-cervelli, che mettono alla prova anche il più dotato dei cervelloni; e mantiene la tensione fino alla fine.
 Per me, Death From a Top Hat è non solo tra le Camere Chiuse, un capolavoro assoluto.
Ma anche questo racconto lo è.
5055802.jpgProbabilmente, potrebbe essere stata la risposta di Clayton Rawson a He Woluldn’t Kill Patience, uno strepitoso capolavoro di Carter Dickson (John Dickson Carr), pubblicato nel 1944, in cui la vittima è uccisa in una Camera non chiusa solamente, ma sigillata, tanto che neanche l’aria ne esce fuori.
Normalmente, quando si legge una Camera Chiusa, nella storia è messo in atto sempre un trucco (l’unica volta che non c’è, è quando si verifica una casualità che pone in essere una Camera Chiusa, allorché non ci sarebbe dovuta essere: per esempio, se una corrente d’aria fa sbattere una porta chiudendola, oppure se qualcuno avendo in mano la cordicella per aprire una finestra viene sparato e cadendo lasci la presa della cordicella, determinando la chiusura della finestra. E così via..). Ora questo trucco può riguardare la manomissione del chiavistello o di quant’altro della porta o delle finestre; oppure è legato a qualcosa che si sia visto per cui si esclude che qualcuno sia potuto uscire (per es. in It Walk by Night di Carr, dei testimoni sono pronti a giurare che le aperture alla sala dove è avvenuto il delitto, erano ambedue sorvegliate continuamente; oppure qualcuno è stato indotto a credere che quel che ha visto era una cosa ed invece non lo era: per es. in The Wrong Shape di Chesterton ) essendosi escluso il suicidio.
Ma in questo racconto per la prima volta, che io ne sappia, è messo in atto un trucco riguardante non la vista del testimone, ma..l’udito. Cioè un elemento sensoriale che il più delle volte non entra in scena per quanto riguarda la chiusura di una porta o finestra, ma solo nella determinazione di quanto sia accaduto (un urlo, rumori di lotta, uno sparo) cioè con l’omicidio o con la sparizione di qualcosa in una stanza chiusa dall’interno. Il solo rumore che sia in relazione diretta con la chiusura della porta, è di solito quello prodotto dalla porta e dallo stipite che vengono sfasciati, insieme o l’uno escludendo l’altro, per l’azione di qualcosa che venga usato per abbatterli: qualcuno che si lanci contro, oppure una panca usata come ariete. Quando ci sia un’illusione, essa è associata, semmai al rumore di uno sparo, che serva a dilazionare l’azione, attribuendola ad un tempo in cui si sia premeditata la testimonianza magari in buona fede, di chi giuri che l’assassino era con lui quando si sia sentito lo sparo. Qui, invece, il suono dello strappo della carta gommata usata per sigillare porte e finestre della stanza, viene associato direttamente all’impossibilità che l’assassino (a) sia potuto uscire dalla stanza. Ci sarebbe, è vero, anche la possibilità che in una camera Chiusa si oda il rumore del chiavistello, o della chiave che viene girata, e questi sono suoni che sono connessi anche con la chiusura della porta dall’interno, ma…servono solo a convincere che la porta sia stata chiusa. Qui invece la porta si sa che è chiusa, ma anche se non lo fosse, ci penserebbe la carta gommata a instaurare una impossibilità evidente, che non è tanto evitare che qualcuno o qualcosa entri (dentro la stanza, annullando l’esperimento di PES) presenti Drake e la Rhine, ma piuttosto qualcuno o qualcosa esca, determinando la possibilità che la Camera Chiusa non sia più tale. Del resto, un chiavistello si può truccare, ma come si può truccare un semplicissimo rotolo di carta gommata?
Ecco l’abilità di Clayton Rawson, nel convincere che l’illusione non ci sia mentre esiste. Eccome!
La soluzione, semplicissima (tanto che si rimane a bocca aperta), soddisfa tutte e tre le impossibilità prima indicate, fornendo una soluzione immaginifica ed inchiodando il meno probabile degli assassini alla prova delle ipotesi, ma il più probabile anzi l’unico, a quella dei fatti.
A voler analizzare poi, ancor più nel dettaglio, la soluzione proposta da Merlini, vediamo che essa in pratica non è che una variazione ingegnosa ( e più complicata, perché presenta l’illusione auditiva) del trucco adottato da Hake Talbot nella Camera Chiusa inventata nel suo primo romanzo.

Pietro De Palma

martedì 29 dicembre 2015

Paul Halter : Le mani bruciate (La mort vous invite, 1988) – Trad. Igor Longo – Il Giallo Mondadori N.2560 del 22 febbraio 1998


03lamortvousinviteitalie.jpg
Il mio innamoramento delle opere di Paul Halter risale al 2003 : prima di quell’anno, lo devo ammettere, non lo conoscevo. Ma in quell’anno conobbi Igor Longo, consulente storico del Giallo Mondadori. Accadde per caso: scrissi all’Editor di quegli anni, che era Sandrone Dazieri, una lettera in cui sostanzialmente chiedevo che mi potesse dare delle indicazioni su come reperire romanzi gialli Mondadori che contenessero Camere Chiuse, perché è stato sempre il mio pallino. Lui passò la palla a Igor Longo, che mi rispose devo dire anche entusiasticamente, dato che aveva trovato un altro fissato di Camere Chiuse (Igor è il maggiore esperto italiano, sicuramente).
E così cominciò una fitta corrispondenza che poi diventò amicizia epistolare: Igor tra gli altri autori, mi spronò a leggere Paul Halter che a suo dire era il maggior autore contemporaneo di delitti impossibili e camere chiuse. Io lo presi in parola, e così..cominciai a ricercare gli Halter: la maggior parte la trovai a “La libreria del giallo”, quelli più difficili da trovare, quelli che neanche Igor possedeva più (in più copie), tipo Il cerchio invisibile, La quarta porta, Testa di tigre, Cent’anni prima, La morte dietro la tenda rossa, Le mani bruciate, A 139 passi dalla morte; mentre lui mi regalò autografati quelli più recenti tradotti da lui. In realtà pur avendo suggerito lui di pubblicare le opere di Halter, inizialmente a tradurre Halter era stata Marianna Basile; poi in un secondo tempo era subentrato lui. Da Igor ebbi gran parte del resto : Il delitto del Minotauro, La tela di Penelope, Il delitto di Atlantide, L’albero del delitto, Fiamme di sangue, la lettera che uccide. Infine Nebbia Rossa, la Camera del pazzo, e I fiori di Satana me li procurai dopo : Nebbia Rossa era un vecchio titolo che comprai in quanto resa, nuovo, così come La vendetta di Barbarossa, ultimo titolo uscito l’anno scorso. E poi un amico mi ha ceduto la raccolta di racconti in francese, La Nuit du loup.
Halter dev’essere stato sicuramente uno degli autori che più ha pagato il cambio editoriale: da quando lasciò Dazieri, si è progressivamente ridotto il parco dei titoli di autori francesi che, durante la sua gestione, si era notevolmente ingrossato, anche grazie all’abnegazione di Igor che è sempre stato un innamorato della cultura francese (e suppongo lo sia ancora): erano stati pubblicati, sempre tradotti da Igor, almeno, 3 romanzi di Steeman, uno di Jacquemard-Senecal, gli Halter, e altri si sarebbero aggiunti se… Insomma, qualcosa cambiò. E Halter fu uno degli autori che pagò di più.
Una certa tendenza all’anglofilia e al rigetto della letteratura francese gialla dell’ “età dell’oro”? Sicuramente anche questo. Ma anche altro.
Bisogna dire che non è mai stato autore che abbia goduto di simpatie massive: c’è sempre stata una sua sponda che l’adorava ed una che non lo sopportava. Insomma un autore controverso: il perché possiamo cercare di spiegarlo, analizzando una sua opera, uno di quei romanzi che viene da più indicato come uno dei migliori: La mort vous invite ( “Le mani bruciate” ).
E’ un romanzo che ha goduto si dall’inizio di un grande successo di pubblico (in Francia soprattutto) anche in ragione di uno sceneggiato televisivo che fu tratto da esso.
Harold Vickers è uno scrittore di successo di romanzi gialli, ma da un po’ di tempo il trend di vendita è in calo, per cui lui decide di scrivere un romanzo con cui pensa di invertire la discesa di gradimenti: sarà una Camera Chiusa fenomenale.
Vive da solo in una villa, a St. Richard’s Wood, assieme alla moglie Dane, al cognato Roger Sharpe illusionista, alle figlie Valerie e Henrietta; Valerie è fidanzata ad un sergente di polizia, Simon Cunningham.
Una sera Simon si presenta a casa Vickers : è stato invitato a cena dal padrone di casa, ma dell’evenienza nessuno sa nulla. Anche un altro è stato invitato a cena: un certo Fred Springer, critico di romanzi polizieschi. Per di più Valerie che doveva andare a teatro si è arrabbiata perché ha pensato che Simon le avesse preferito un’altra.
Vanno a chiamare il padrone di casa, ma non risponde: aveva detto quel giorno di non disturbarlo per nessuna ragione. Bussano alla porta, gridano, niente. Fanno il giro della casa: attraverso le imposte, vedono che la camera è illuminata. Il maggiordomo si procura una chiave da un’altra porta, giacchè le serrature della casa son tutte uguali, Simon la usa per aprire, ma gira a vuoto. Significa che ha messo il chiavistello, per cui.. si decide di buttare giù la porta, che cede dopo una spallata. Lo spettacolo che si presenta agli occhi dei presenti è raccapricciante: su una tavola imbandita, è posto un tegame con dell’olio bollente in cui sfrigola ancora la carne, in cui è immersa la faccia e le mani dello scrittore, ustionate a tal punto da impedire un riconoscimento formale: la morte è stata dovuta ad un colpo di pistola alla tempia. A testimoniare l’immediatezza della morte è il fatto che due polli sfrigolino ancora e fumino sulla tavola, al centro della quale torreggia un trionfo di fagiani, vicino a dei legumi ripassati con lo scalogno ed il lardo.
Vicino alla finestra un calice pieno per metà di acqua e due guanti.  E ovviamente nessuno dentro la stanza: finestre chiuse, e nessun altro passaggio con l’esterno, segreto o non; e pure la cappa del camino pur essendo senza grata è talmente piccola da consentire il passaggio solo ad animali di piccole dimensioni.
La moglie ha un mancamento sulla soglia; subito chiedono l’intervento della polizia e così Archibald Hurst, Ispettore di Polizia, e Alan Twist criminologo, che stanno giocando a scacchi a casa del primo, si trovano scaraventati in un’altra avventura assurda.
Sin dalle prime battute si sa che innanzitutto la morte non è stata subitanea, ma è avvenuta parecchio tempo prima almeno 24 ore; e che lo scrittore aveva un fratello gemello che abitava in Australia, e il dubbio che comincia a farsi strada poco alla volta è che la faccia bruciata abbia lo scopo di impedire il riconoscimento: vuoi vedere che non si tratta di Harold ma di Stephen Vickers, ricco quanto se non di più del fratello scrittore?
La prima cosa da controllare sono i denti: ma in questo caso è inutile: Vickers si vantava della sua dentatura sana e dal dentista non andava mai per questo motivo. Sul tavolo dell’obitorio, davanti ad uno spettacolo tanto penoso, tuttavia una delle figlie si ricorda di una cosa accaduta l’anno prima: il padre si era ferito ad una gamba ed era rimasta una piccola cicatrice: se ne ricordava perché la ferita inizialmente aveva tardato a rimarginarsi. Quindi è Harold sembrerebbe.
Intanto, si viene a sapere di una maledizione: il padre di Harold era morto per infarto e le cause erano da ricercare nel fatto che lui non apprezzasse il genere di narrativa praticata dal figlio. Una delle due figlie; Henrietta, che odia il padre perché a sua volta non apprezza il suo talento di pittrice, evoca la presenza del nonno. Una notte, Simon Cunningham vede un’ombra nel cimitero: dice che si trattava di un vecchio, che vagava con dei cenci sporchi addosso in direzione del vecchio cimitero che è adiacente alla casa: si tratta di presenza o allucinazione?:
Fatto sta che proprio quando si pensa che l’identificazione sia stata assodata, spunta fuori dall’autopsia che il morto possedeva due denti impiantati: allora non si tratta di Harold ma di Stephen? E Harold dov’è? E’ stato lui ad uccidere il fratello?
Di lì a poco altri imprevisti accadono. Twist si accorge che i pantaloni dell’amico sono imbrattati di sangue: dove mai può esserseli sporcati? Forse quando ha dato un calcio a dei cenci per strada? Quando trovano un pezzo di lenzuolo sporco di sangue fresco, Twist ha un presentimento e si dirige verso casa, dove in camera sua trovano Henriette sgozzata. A questo punto si dirigono verso il cimitero, trovano la tomba del nonno, ma si accorgono anche di uno strano odore, un odore di morte. E’ Hurst che si accorge che dietro la lapide, c’è un altro cadavere vecchio di qualche giorno: anche se i lineamenti sono distorti e puzza parecchio, è senza dubbio il fratello gemello.
Twist e l’Ispettore vogliono sapere se il vicino di casa di Harold Vickers sapesse qualcosa di lui; e così andando a trovare Colin Hubbard, gli regalano Le Mystère de la chambre jaune di Gaston Leroux, perché quando l’avevano interrogato precedentemente lui era caduto nella trappola di Twist: interrogato su Le Mystère de la chambre jaune di Conan Doyle (???), lui si era spinto in descrizioni fantomatiche del romanzo con Sherlock Holmes e il Dottor Watson, dimostrando così di non saperne  nulla. Allora per quale motivo Vickers andava così spesso a trovarlo? Sanno così di un delitto avvenuto cinquant’anni prima, in cui parecchi dei particolari sono uguali a quelli trovati sulla scena del delitto di Vickers: il calice pieno a metà di acqua ed il paio di guanti per terra, vicino alla finestra, di cui è stato testimone lo stesso Hubbard.
Varie prove si accaniscono contro Dane Vickers : sotto il suo materasso vengono trovati degli strumenti utilizzati per la messinscena della morte del marito, e tra di essi due capelli suoi. Questo basta (oltre alle sue condizioni psichiatriche gravi, e alle sue accuse alle figlie che il nonno le avrebbe punite) per far convergere su di lei le accuse dell’Ispettore.
Ma non è finita, perché Alan Twist con un rapido dietrofront rivolterà di nuovo le carte ed inchioderà l’omicida.
Diciamo innanzitutto che questo romanzo è quello degli odori: profumo di pollo fritto, di legumi; fetore di cadaveri; odore penetrante di vernice fresca (la casa dove abiteranno Simon e Valerie); l’odore di vernice fresca in colore di cui l’assassino/a ha cosparso la serratura dopo averla svitata e manomessa. Tanti profumi, troppi però per non far ricordare dell’altro.
All’inizio quando cominciai a leggere gli Halter, mi accorsi subito (e lo dissi ad Igor) di quella lunghissima sfilza di citazioni presente nei romanzi dello scrittore alsaziano: Igor lo giustificò con l’amore di Paul Halter verso Agatha Christie soprattutto e verso ovviamente John Dickson Carr.
Ad oggi io direi altro anche: pur accettando quella versione, io propenderei anche per un’altra che non necessariamente elimini la prima ma direi la integri: il volume delle citazioni è troppo rilevante perché possa trattarsi solo ed esclusivamente di citazioni.
Le citazioni possono essere inconscie e consapevoli: io direi che troppe volte, col senno del poi, mi paiono consapevoli. E’ come se lo scrittore, dovendo scrivere un nuovo romanzo, e trovandosi a corto di inventiva, la surrogasse con delle trovate di altri scrittori: non sempre l’inventiva correi in aiuto. Se si sta bene, i romanzi popssono essere magnifici; quando non si sta bene, si perdono colpi (il riferimento è a Carr). Il discorso è che per capire la portata delle citazioni, devi essere anche tu un grande lettore come lo è lui, e quindi automaticamente, non saranno molti coloro che capiranno il meccanismo.
Ovviamente questo non toglie che altrove, cioè in altri romanzi, la portata delle citazioni non possa essere meno importante o addirittura non esserci: è per questo che parlo di citazioni conscie e inconscie. Per esempio Le brouillard rouge, “Nebbia Rossa”, che io considero ancora ad oggi se non il capolavoro di Halter, almeno uno dei suoi capolavori, rivela una potenza evocativa di immaginazione e una scrittura così coinvolgente da non aver bisogno di trucchetti e citazioni: se vogliamo, in quel romanzo, la cosa meno importante è proprio la Camera Chiusa, che poi non è funzionale al romanzo, ma ne è solo una trovata!
In questo romanzo, le citazioni abbondano: citazioni a romanzi propri ("Nebbia Rossa", appunto: se ne parla all’inizio, ma c’è un altro riferimento molto più diretto ad un certo punto del romanzo che non rivelo, perché chi avesse letto questo romanzo, senza aver letto "Le mani bruciate", potrebbe fare il collegamento mentale ed immaginare chi possa essere l’omicida; inoltre a Nebbia Rossa si ricollega anche per la tecnica narrativa: il romanzo comincia come finisce: si incomincia a parlare di un omicida e si finisce con esso), ma anche altrui.
Innanzitutto Harold Vickers: si riferisce sicuramente a Roy Vickers, altro scrittore (era specializzato nella Inverted Story). Può riferirsi anche al romanzo di Roy Vickers, Six Came to Dinner? Molto probabile. Ma ci sono anche altre citazioni.
La messinscena del delitto così fantasiosa e culinaria (unica direi fra tutti i romanzi letti sinora) richiama Arabian Nights Murder di Carr: lì il morto è vestito con un cilindro, un cappotto, ha una barba posticcia e vicino c’è un libro di ricette di cucina.

Ma al contempo, il fatto che richiami un delitto avvenuto cinquant’anni prima (si badi, cinquanta anni, non quaranta o sessanta) richiama un radiodramma di Ellery Queen, The Disappearance of Mr. James Phillimore, in cui un evento accaduto cinquant’anni prima, si verifica esattamente cinquant’anni dopo.
Uno della famiglia che assassina gli altri componenti è una trama vista e rivista, ma quando è la madre che uccide, il riferimento è a The Green Murder Case di S.S. Van Dine: in realtà ad uccidere era la figlia adottiva, qui…
Ma c’è anche il riferimento a Gaston Leroux e Jacquemard-Senecal.
E poi..la cicatrice alla gamba: a chi ci fa pensare?  A me fa pensare alla voglia a forma di fragola sulla coscia di Brad, riconosciuto dalla moglie proprio per questo: ma a The Egyptian Cross Mystery potrebbe riferirsi anche il fatto che il cadavere di Vickers come quello di Brad e dei suoi fratelli non possa altrimenti essere identificato: qui i lineamenti sono bruciati, è come se non avesse più faccia; lì manca proprio la testa.
Ma potrebbe esserci anche un altro significato delle citazioni, accanto a quello connesso con il ricordo di grandi scrittori del passato o con la mancanza supposta di inventiva alla bisogna: si potrebbe trattare anche di un gioco, di una sfida, che lo scrittore lancia ai lettori. Non faceva così anche Ellery Queen nei suoi primi romanzi?
Ellery Queen lasciava degli indizi e spettava al lettore ordinarli nel modo giusto per giungere a rivaleggiare con l’autore: è possibile che Halter dissemini volutamente delle citazioni, che opportunamente interpretate potranno rivelare l’identità dell’assassino? Le citazioni più dirette qui sono quelle a Nebbia Rossa e al romanzo succitato di Van Dine, ma anche quelle di Leroux e Jacquemard-Senecal non sono male.
Halter propone due soluzioni: la prima quella fallace è data da Hurst che accusa Dane dei tre assassini, la seconda da Twist che invece individua l’omicida. Ma, è bene dirlo subito, Hurst individua già mezza soluzione:Dane Vickers avrebbe messo dentro la serratura un pezzo di metallo che avrebbe dovuto avere la funzione di annullare l’apertura della porta (suo padre era fabbro). Ella avrebbe rotto il catenaccio interno già da venerdì, dopo aver apparecchiato la tavola ed ucciso il marito; poi sarebbe uscita dalla finestra esterna ritornando in casa, chiudendo la finestra, aprendo la serratura, mettendovi dentro il meccanismo che avrebbe reso inservibile l’apertura tramite maniglia della porta, poi rimettendola a posto ed infine passandovi sopra la vernice per impedire che si vedesse la manomissione; e poi chiudendola dall’esterno. Poi avrebbe messo le cose a posto sabato, cucinato, chiuso la porta innestando il meccanismo e aspettato Cunningham e Sprinter, cosicché quando avessero aperto la porta lei fosse con loro e chiunque avrebbe testimoniato questo. Quando avessero provato ad aprire la porta, essa sarebbe sembrata chiusa solo col catenaccio mentre lo era solo con la serratura: Ovviamente nella parte preparatoria, avrebbe protetto la stanghetta dell’apertura automatica, riparandola con un foglio di cartone, in modo che, quando avesse spinto la porta per rompere il catenaccio, essa lì per lì non avrebbe dovuto subire alcun colpo.
Ma la spiegazione di Hurst si scontra contro l’ostacolo di Twist: se lei fosse stata davvero l’omicida, dove avrebbe mai nascosto il cadavere di Stephen, morto già da alcuni giorni, e che avrebbe dovuto puzzare parecchio?
Ecco allora la spiegazione di Twist: l’assassina non è lei.
L’omicida fa quello che ha detto Hurst, solo che non cucina lui: porta qualcosa già di cucinato (i legumi) e i polli li fa sembrare cotti da poco solo perché laddove li ha posti, nel vassoio, ha versato dell’alcool cui ha dato fuoco. Il pezzo di metallo inserito nella serratura non ha nessun significato: l’averlo messo ed aver verniciato la serratura ha avuto solo lo scopo di far convergere i sospetti su Dane: i capelli messi nella borsa dia ttrezzi sono stati tagliato con le forbici, non sono caduti spontaneamente. Egli invece non chiude affatto la porta, ma la chiude solo con la serratura automatica: quando accadrà che sia necessario aprire la porta, sembrerà che giri a vuoto la chiave ; ma invece che chiusa e sfondato il chiavistello, la porta invece sarà aperta e chiusa solo con l’apertura a scatto della maniglia. Così uno di coloro che sfonderanno la porta, farà solo finta di imprimervi la propria forza. Questa persona avrà avuto invece la possibilità di occultare il cadavere e nasconderne l’odore putrido grazie ad uno stratagemma, che sarà anch’esso rivelato da Twist.
Tuttavia la cosa che a me di Halter piace di più è la sua tendenza a descrivere situazioni o descrizioni macabre: il “macabre” che è uno dei caratteri peculiari dei francesi, da lui è portato alle estreme conseguenze (altri casi che mi vengono in mente sono La chambre du Fou in cui c’è molto macabre o anche L’image trouble).
Infine, proprio collegata a questa tendenza macabra delle narrazioni halteriane, è l’ultima citazione che ho trovato: il cadavere in putrefazione del fratello gemello, non ci fa ricordare The Hangman’s Handyman di Hake Talbot? Poi volendo, ce ne sarebbe un’altra: un cadavere in putrefazione associato ad una tomba dove si trova il cadavere omonimo, mi ricorderebbe anche The Greek Coffin Mystery di Ellery Queen, anche se lì i due cadaveri, quello originario e l’intruso sono trovati nella stessa bara, mentre qui il cadavere intruso viene lasciato sulla tomba.
 

Non solo. C'è un'altra citazione non so se consapevole o inconsapevole: l'aver  nascosto un cadavere che poi  potrà essere trovato ha lo scopo di renderne impossibile il riconoscimento. Infatti se il cadavere è in decomposizione, sarà problematico attribuirgli un'identità. Nel primo romanzo di Abbott, About the Murder of Geraldine Foster , il cadavere è nascosto, poi sarà trovato  intatto, in modo che l'ora della morte potrà essere ritardata. L'effetto è l'opposto, il mezzo è lo stesso: il corpo è nascosto, e in entrambi i casi gli odori stanno facendo la loro parte: nel caso di Abbott, l'odore di pino volgerà all'identificazione della sostanza in cui era corpo immerso, ossia l'acido tannico; nel caso del Halter, l'odore pungente della vernice che Twist ha annusato ad un certo punto del romanzo, lo indurrà a capire come e dove il corpo potrebbe essere stato nascosto. In entrambi i casi, l'odore della sostanza porterà ad individuare il killer.
Infine una citazione dal grande romanzo di Alan Thomas  (Morte in ascensore,The Death of Lawrence Vining, 1928) : qui vengono trovati due capelli sotto il materasso, lì sotto il materasso viene trovato il fodero del pugnale.
Insomma tutto, ed il contrario di tutto, in un romanzo che non è solo un ottimo howdunnit ma che è anche un eccellente whodunnit, direi uno dei migliori che Paul abbia scritto sino ad ora, infarcito di citazioni, che, se talora può mancare di riferimenti originali, tuttavia ha una grande atmosfera (Halter è un maestro di atmosfere, come lo era Carr), che attanaglia a fa finire il romanzo in men che non si dica. 
E la Camera Chiusa è conclusa abbastanza soddisfacentemente.

Pietro De Palma



venerdì 25 dicembre 2015

John Dickson Carr : Il Mostro del Plenilunio (It Walks By Night, 1930) – I Classici del Giallo Mondadori, N.196 del 1974 - 2^ parte

Nella prima, Jeff Marle e Sharon Grey sono assieme nella villa de lei.
Dapprima conversano: “ – Lewis Carroll..è fantastico! Io non avevo mai letto “Alice”! – Raoul.. – esitò un attimo poi proseguì – ..un mio amico me ne doveva portare una copia..Non è delizioso il ricevimento del Cappellaio Pazzo? E quando portano in giro i fenicotteri, e lui dice: Taglia, taglia la sua testa!..” (pag.136).
Si siedono su una panchina rustica, vicino al muro posteriore:
“..quando passammo davanti alla panchina rustica, toccai il braccio di Sharon che si sedette: nella poca luce che filtrava attraverso i rami dei cipressi,, potevo scorgere il pallore del volto di lei, alzato verso la luna: quel volto,eccettuati gli occhi, sembrava quello di una morta, e anche il suo corpo sembrava morto” (pag.137). E ancora a seguire:
“– Com’è gelida la vostra mano, sulla mia spalla!…le parole penetrarono nel mio cervello…mi resi conto con orrore che le mie mani erano intrecciate insieme, davanti a me. Proprio così…poi le sue parole risuonarono nella mia mente in un rapido, tremendo sospetto. – Alzatevi – dissi, udendo a malapena la mia stessa voce. – Alzatevi di lì un secondo, per favore. – Perché? Cosa succede? Sembrate.. – Alzatevi di lì. La trascinai via dalla panchina, dietro di me, poi mi precipitai di nuovo verso il sedile. Fui sopraffatto da un senso di repulsione..il chiaro di luna, attraverso i cipressi, rivelava la mano di un uomo che sporgeva immobile dalla spalliera della panchina. Spostai il sedile e vidi un corpo umano che si adagiò per terra, dandomi impressione quasi di cosa viva..rimasi curvo,pervaso da un forte senso di nausea; la fontana mandava un suono stridulo, come una risata…La sua testa quasi staccata dal corpo. Adesso la sua faccia bianca e rigata di sporco era rivolta verso la luna: Era Edouard Vautrelle; aveva le labbra rialzate sui denti, in una smorfia di derisione, e il monocolo ancora fermo nell’occhio senza più luce (pag. 137-138).
Noto la successione dei vari momenti, che si rincorrono sempre con maggiore tensione verso il catartico ritrovamento di Vautrelle: innanzitutto il riferimento alla decapitazione in “Alice nel paese delle meraviglie”. Poi il riferimento alle candele che man mano si spengono (ho saltato il riferimento di pag.137). Poi la passeggiata nel parco della villa, soli, al chiaro di luna, senza altre luci. Il riferimento ai cipressi (alberi da cimitero) introduce un nuovo elemento di tensione. Ma la fontana col suo rumore cristallino smorza la tensione, almeno..parrebbe che la smorzasse. Poi..il pallore nel volto di lei, che sembra quello di una morta. Ancora un riferimento macabro.  Poi si siedono sulla panchina, e ancora una volta sembrebbe che la tensione si svaporasse, quando..un nuovo elemento di tensione ancora più acuto si affaccia: la mano gelida. Che porta all’orrore di vedere le proprie mani conserte. E di chi è allora quell’altra mano? La sua voce è inudibile, in preda allo spavento. La luce della luna che attraversa i cipressi (ancora loro!) rivela una mano umana appoggiata alla spalliera della panchina. Ora il rumore dell’acqua della fontana non è più rilassante ma assomiglia al suono di una risata aggiungerei..maligna. E poi ..un corpo con la testa quasi staccata dal corpo. E infine la rivelazione che si tratta di Vautrelle. Vautrelle? Ma se si era quasi stati portati a sospettarlo di omicidio?


Faccio notare due cose:
innanzitutto come gli stessi oggetti, a seconda dello stato emozionale in cui vengono a trovarsi i soggetti, possono mutare diametralmente il loro significato. Per es. la fontana della Villa di Versailles, prima ha un suono cristallino, poi è come se ridesse (ma non è una risata allegra ma beffarda, sardonica, che accompagna la scoperta dell’omicidio); e poi come le stesse cose possano avere un significato diverso a seconda da come le si usi: per es. la Villa di Versailles, che tenuta al buio e rischiarata dalle candele ha un’aura romantica ma piena di presagi di morte, dopo la morte, rischiarata dalla luce elettrica perde la propria aura spettrale per ricavarne una più fredda.
Ancora da notare è come il procedimento usato da Carr per generare tensione sia quello cosiddetto accrescitivo, usato con estrema accortezza, molto simile al sistema usato dai compositori dell’ottocento per accrescere la tensione drammatica nella musica: se si fosse puntato infatti su un’unica linea, procedendo dalla tensione minima alla tensione massima, non si sarebbe potuto andar avanti per molto tempo; e dopo un poco la tensione si sarebbe esaurita. Invece qui, per accrescere una tensione drammatica e portarla a livelli insostenibili, Carr si ferma ogni tanto, quasi seguendo delle tappe, e da ogni tappa riparte con una forza maggiore e con elementi che pur essendo simili a quelli originari, portano a situazioni più sconvolgenti. 
La seconda citazione non ha la tensione della tragedia, non ha il passo del thriller alla Rufus King. E’ più diretta, ma molto più macabra. A parlare è Gersoult, valletto di Saligny, mentre il suo padrone giace nella bara, con la testa staccata dal corpo: “ –Lo so – disse. Lo so, signore: voi andate a cercare le cose morte che camminano in cantina: le ho sentite le cose morte, stropicciare i piedi, là sotto..” (pag. 169). Brr…
Ma in questo romanzo non c’è solo Poe, cioè non solo atmosfera e tensione;  c’è anche una consorteria di scrittori, tutti precedenti all’entrata trionfale di Carr. In pratica lui si comportò, come chiunque che non avendo ancora uno stile proprio, cercasse di attingere da chi, prima di lui, aveva inventato qualcosa.
Tutti o quasi mettono in rilievo Poe. Ma Poe è citato anche dallo stesso Carr. Il discorso è che Carr prende a piene mani anche da altri: primo fra tutti Gaston Leroux.
Non c’è dubbio infatti che il Leroux di Le mystère de la chambre jaune deve aver esercitato un’influenza determinante su Carr. E lo si desume, come giustamente rileva Nick Fuller, dalla trattazione che Bencolin fa alla fine del capitolo undicesimo: lì viene confrontata la pratica investigativa americana, fatta di terzo grado e di informatori, e di indagini brutali, con quella francese in cui un corpo di polizia ha il compito di investigare usando la ragione. Ma nello stesso tempo, Bencolin mette in guardia contro la credenza che chiunque, dotato solo di sagacia, e quindi senza esperienza o studio, possa improvvisarsi investigatore: in una Francia degli anni ’20, quale altro confronto è possibile se non con il Rouletabille di Leroux? Non solo.
A Leroux ci porta anche il modo assolutamente trasformistico di creare e ricreare la realtà a piacimento: Frédéric Larsan, il celebre poliziotto di Leroux, in realtà è anche il criminale Ballmeyer, e allo stesso modo Alexandre Laurent diventa Saligny.  L’abilità trasformistica di Ballmeyer ad impersonare il personaggio Larsan e a condurre il gioco secondo la propria prospettiva è la stessa dell’assassino qui e del suo complice, che orchestrano il delitto come un concerto. Ma più ancora che al primo, Carr mi riporta al secondo Leroux, Le parfum de la dame en noir, dove la follia e la capacità di farsi beffe della realtà svia continuamente il lettore.
E la polizia francese diversa da quella americana, a chi ci conduce? A chi Carr voleva riferirsi? A me sembra che il riferimento possa essere più che quello di Leroux piuttosto quell’altro di Monsieur Lecoq, il celebre poliziotto di Gaboriau, il primo rappresentante di quella schiera ( opposta al poliziotto non acuto tipo il Lestrade di Conan Doyle), che rivendicò il proprio posto nella Letteratura poliziesca.


Ma al di là di questo, riscontro anche altre influenze, in questo primissimo Carr.
Soprattutto Freeman e Crofts. Per delle cose che noto qui, ma non anche in altri Carr successivi: qui per esempio c’è un eccessiva attenzione ai tempi. Alle pagg. 67-68, cioè nelle ultime due pagine del quinto capitolo, Bencolin riassume la situazione delle testimonianze e deposizioni, consultando il suo taccuino in cui ha ordinato i vari tempi riferiti alla situazione criminosa: ora, questa è una nota che ci avvicina fortemente ai romanzi di Crofts, la cui principale caratteristica è quella di esibire degli alibi a prova di bomba che poi vengono smontati altrettanto sapientemente.
Invece dal R.Austin Freeman del dottor Thorndyke, Carr prende la tendenza a trattare gli indizi materiali come fondamento all’indagine investigativa: per es.nel capitolo sesto, “Sette metri per sette”, assistiamo ad un tipo di indagine scientifica, per quanto riguarda il rilevamento di prove materiali: lo spargimento di polvere per le impronte digitali, le fotografie della scena del delitto, il segno del contorno del cadavere col gesso. E poi Bencolin che supera i suoi stessi uomini e trova sotto le unghie della vittima un pezzo di filo, che solo lui avrebbe potuto vedere, e che poi viene identificato, in un tipo di filato . Poi si vedono uomini che esaminano il tappeto, tolgono la copertura del divano, fotografano e rilevano impronte. Mike Grost indica invece l’indagine scientifica che Bencolin attua coi suoi uomini nella Villa di Versailles dove giace il cadavere di Vautrelle, nel capitolo XIII, “Morte a Versailles” : il sangue, le coltellate alle spalle, le tracce sanguinolente che partono dal cancello posteriore della villa, indicano che l’assassino ha seguito Vautrelle che si trascinava fino alla panchina, e quando lui si è accasciato, egli ha cominciato a staccargli la testa dal busto. La mancata recisione della testa che indica come non si sia utilizzata una spada ma piuttosto un coltello, un lavoro da inesperti, un coltello grosso, forse americano, da caccia. Tutte tracce che opportunamente interpretate da Bencolin gli consentiranno di farsi un’idea precisa su quel che possa essere accaduto. E non sbaglierà neppure in quest’occasione!
E infine l’Hashish e l’oppio hanno una grande importanza in questo romanzo. E chi ci ricordano oppio e hascisc? De Quincey, Balzac, Baudelaire, Gautier. Noto come in determinati passi del romanzo si trovino riferimenti a queste droghe, molto significativi: innanzitutto tra gli autori preferiti da Laurent sono citati De Quincey e Baudelaire. Laurent ed altri personaggi si drogano. In un passo, prima dell’assassinio di Saligny, colui che l’ucciderà esclama: “– Questa musica maledetta..non posso sopportarla. Perchè stanno sempre suonando lo stesso motivo da mezz’ora?”. Ancora una volta, un qualcosa cambia significato, a sottolineare un cambio emotivo dei personaggi: prima l’orchestra jazz produceva un semplice frastuono; ora la musica dell’orchestrina, sappiamo che viene percepita come ossessiva. Anche perchè il soggetto che inveisce, intuiamo che è drogato.
Quincey è ricordato per aver scritto Murder considered as one of the fine arts ,“L’assassinio come una delle belle arti”. Ma è anche ricordato per uno scritto molto più famoso all’epoca, Confessions of an English opium-eater, “Le confessioni di un mangiatore d’oppio”. Non scordiamoci che il Carr degli anni ’20 che aveva vissuto a Parigi, si era imbevuto di letteratura francese: e quindi non potrebbe aver letto anche Théofile Gautier, dedito all’oppio e all’hashisc, come lo stesso Balzac?
Tra tante meraviglie, l’unica cosa che mi appare stonata è l’omicida: non è un grande omicida, non è una persona di grande levatura, un genio come in gran parte dei romanzi di Carr. Non è neanche un vigliacco, un fetente. Piuttosto è una creatura debole, dedita alla droga, che ha ucciso non perché desiderasse uccidere Saligny, ma perché glielo si è chiesto, lo si è convinto a farlo. Ma poi il secondo omicidio e il tentato terzo, sono il frutto della sua follia. E la pervicacia con cui Bencolin lo accusa, lo distrugge psicologicamente, fa quasi pena: Bencolin non ha nulla di Fell o Merrivale; è piuttosto un essere duro, spietato con chi sbaglia. Perché non è solo poliziotto ma anche giudice. E quindi è implacabile. Il suo compito non è solo quello di acciuffare il reo ma anche di portarlo, come dice lui qui, alla ghigliottina (pag.193).
Questo modo di presentare Bencolin, con la sua aria sinistra e mefistofelica, riesce quasi ad invertire i ruoli: il povero assassino da una parte, il freddo poliziotto dall’altra. Del resto l’assassino ha eliminato dei rifiuti della società: uno psicopatico, un imbroglione, e stava per uccidere un ricattatore e spacciatore di hascisc.
Bencolin non si accanisce contro l’assassino perché questi ha ucciso, quanto piuttosto per come ha impedito che lui, Bencolin, che aveva dato la sua parola a Saligny di proteggerlo, potesse adempiere alla sua promessa. E per di più perché chi ha ucciso si è fatto beffe dell’ordine costituito, servendosi di lui e di un suo uomo, François, per avere un alibi. Ecco perché, secondo me. la giustizia di Bencolin assume ,qui, i contorni di una vendetta personale; e solo questo spiega l’accanimento del poliziotto nei confronti dell’essere debole che ha davanti, cosa che si può evincere leggendo le pagine finali dell’ultimo capitolo. Accanimento anche perchè deve capire se il suo ragionamento sia stato giusto, se le cose siano andate veramente come lui abbia pensato. Serve cioè, perchè la giustizia possa avere il suo corso, e forse anche, come lui suggerisce all’assassino (vittima di tutta una serie di torti che ha patito), perchè la giuria possa tenerne conto e non applicare la pena di morte. C’è solo un momento, alla fine della storia, in cui si erge l’assassino in tutta la sua figura. E’ quando rivendica la gioia che ha provato quando ha ucciso Vautrelle, quando è stato bagnato dal suo sangue: se l’anima può saziarsi, ecco, lui, l’assassino, si è saziato dopo. Questo identificarsi con l’anima, fà sì che l’assassino giustifichi la morte di Vautrelle con un bisogno di giustizia. Una giustizia che non può essere solo terrena. Non sarebbe stato quindi un assassinio ma un’esecuzione. E quindi è come se dicesse che dovrebbe essere giudicato non per la seconda morte quanto per la prima (a suo dire, ovviamente).
Insomma…un’opera giovanile di Carr, ancora non perfettamente oliata, ma già capace di avvincere e meravigliare: il plot e la soluzione sono meravigliosi, e già richiamano certi altri meccanismi da Camera Chiusa che verranno inventati successivamente.
Un discorso a parte, merita la traduzione di Rossana De Michele che non è che sia malvagia, diciamolo pure. Se alcune volte ho detto che meriterebbe questo romanzo una nuova traduzione, è perchè le parti che sono state tolte conferirebbero una luce diversa e accrescerebbero il fascino: è un discorso di atmosfera, non di plot. Il plot e la spiegazione ci sono tutte, e il romanzo finisce esattamente come finisce quello originale. E inoltre la traduzione per l’epoca è molto buona. Vedete e confrontate certe traduzioni odierne e traduzioni degli anni ’50 Mondadori, e sarete d’accordo con me nell’affermare che allora la Mondadori prendeva i migliori traduttori (cosa che vale tuttora) rispetto al resto. Di traduzioni molto buone, nella scelta dei vocaboli e nella fluidità dell’insieme, ce n’erano anche altrove, ma poche: mi ricordo quelle per Garzanti di Bruno Tasso per esempio.


Nella versione di Rossana De Michele, qua e là si notano dei passi saltati, ma sono passi che riguardano l’atmosfera. Faccio un esempio, pag. 4 del romanzo originale (la prima pagina è occupata dalla piantina che nell’edizione Mondadori è rimpicciolita), Carr scrive : The high lamps were blooming out over Paris as we went down the stairs to my car. He stopped in the doorway to light a
cigar, and he stood for a moment looking up and down the blue-shadowed street—a tall figure silhouetted against the light of the tall doorway, cloak flung over his shoulder, leaning on his silver-headed stick. 



Rossana De Michele traduce solo “The high lamps were blooming out over Paris as we went down the stairs to my car” con “Parigi scintillava alla luce dei suoi mille lampioni quando scendemmo le scale e ci avviammo verso la mia auto“. Ma salta il resto. Che si potrebbe tradurre:
Si fermò sulla porta alla luce di un sigaro, e stette per un momento a guardare su e giù per la strada dalle ombre blu, una figura alta stagliata contro la luce della porta alta, il mantello gettato sulle spalle, appoggiato al suo  bastone dalla testa d’argento“.
Non toglie e non aggiunge nulla se parliamo di plot, ma l’atmosfera della scena risulta parecchio più suggestiva.
E siccome già lo è in gran parte, immaginiamo come lo sarrebbe stata se simili parti non fossero state espunte. 
Immaginare non costa nulla: sarebbe stata magnifica!
Comunque sia..un primo capolavoro di Carr, che proprio con i suoi eccessi riesce a lacerare la trama dell’oblio e a far emozionare ogni qualvolta lo si legga.

Pietro De Palma