domenica 3 gennaio 2016

Stacey Bishop (George Antheil ) : La morte nel buio (Death in the Dark, 1930) – Prefazione Mauro Boncompagni – Traduz. Giancarlo Carlotti – Shake Edizioni, Nnoir Sélavy , Milano, 2009, pagg.188.


Il titolo che ho voluto dare a questa esplorazione di Death in the Dark, rende secondo me molto bene, la strana reazione del pubblico, almeno strana a parere di Antheil, che se ne aspettava una ben diversa, da cui derivò la decisione dello stesso, di abbandonare del tutto le velleità paraletterarie e dedicarsi ad altro.
In verità, il noto critico britannico e romanziere Julian Symons, affermò che Antheil avrebbe scritto un secondo romanzo, oltre a questo pubblicato all’epoca da Faber & Faber, la casa editrice fondata da Elliot; ma di questa seconda opera, al momento abbiamo solo il suo commento e null’altro. Quindi, a meno che non lo si trovi un giorno sepolto in qualche collezione privata, l’unico poliziesco scritto e pubblicato, di Antheil, rimane Death in the Dark.
Perché rimase l’unico tentativo di Antheil? Perché il pubblico non lo accettò come lui si sarebbe aspettato che fosse accaduto?
Innanzitutto diciamo che il romanzo è uno super-vandiniano. All’epoca, in cui Antheil lo scrisse, Van Dine era il campione e l’archetipo da prendere a modello se non copiare, soprattutto per uno scrittore statunitense come Antheil che, pur se trapiantato temporaneamente in Europa (dopo la prima guerra mondiale si era creata una comunità di americani (Ezra Pound, Antheil, Hemingway, Miller, etc..), soprattutto a Parigi, che aveva familiarizzato con autori europei:Elliot, Joyce, Mirò, Picasso, Stravinskj, De Chirico ), risentiva profondamente dell’influsso nietzschiano di Van Dine: Philo Vance è un detective borghese, ma ricchissimo e coltissimo, che disprezza il volgo, e per cui ha valore solo il delitto commesso secondo “una delle belle arti” a dirla come Thomas De Quincey. Insomma un detective per cui le teorie di Nietzsche sulla nascita del Superuomo (che nello scrittore tedesco, al di là della strumentalizzazione post-mortem del nazismo, ha però più un significato filosofico) avevano un valore emblematico. Tuttavia questo super-ominismo filosofico, aveva anche una sua anima profondamente irrazionale, che ben si sposava con gli aneliti di chi voleva risvegliare le coscienze dal torpore in cui erano sprofondate.
Ecco che allora Antheil non potè che creare un detective che fosse in larga parte tributario a Van Dine. E così il Philo Vance di Antheil, che assunse come pseudonimo Stacey Bishop, è Stephan Bayard: come Philo Vance è un esteta, appassionato cultore e critico di arte contemporanea (come appassionato e critico d’arte è Philo Vance), e come Vance è appassionato di musica, solo che Bayard lo è di musica contemporanea; ha anche lui un amico Procuratore: il Markham di Philo Vance è il Wayson di Antheil. E il romanzo di Antheil si basa su uno di Van Dine, in maniera talmente palese, da esserne quasi una citazione.
Una catena di delitti si svolge in una casa, guarda caso di New York: a casa Denny, facoltosa famiglia della borghesia ricca, Dave Denny è stato trovato ucciso da un colpo di pistola in fronte. Cosa c’è di strano? Il fatto che al momento dello sparo, la casa fosse al buio: come ha fatto l’assassino a riconoscere al buio la sua vittima e sparargli esattamente in mezzo alla fronte, nella sua camera da letto? Il bello è che tutti i sospettati erano al momento dello sparo riuniti nella stessa stanza: Frieda Alvinson era sprofondata in una poltrona a leggere; il Dottor Stein e John Alvinson erano affacciati ad una finestra, mentre all’altra, adiacente o quasi, era Gertrude Denny, la moglie della vittima; infine nella sua camera da letto dormiva la matriarca della famiglia, la madre dei Denny. E c’è anche un fratellastro, Aaron, nato dal primo matrimonio di Roscoe Denny, che però al momento dell’omicidio, era fuori di casa.
Le indagini paiono a prima vista più che ardue: chi ha ucciso ha approfittato di una fortuita distrazione dei presenti (l’ululato delle sirene dei pompieri che passavano sotto le finestre di casa), oppure ha scientemente premeditato il tutto? E chi si aspettava di vedere dentro il bagno Gertrude, quando il capitano Jules ha aperto la porta del bagno? E chi ha scritto un misterioso libro poliziesco in cui si trova minuziosamente descritta una vicenda che si adatta a pennello a quella appena accaduta? E soprattutto perché la chiave della porta si trovava infilata dal di dentro, quando era consuetudine che quando uno della famiglia fosse fuori (Aaron) essa fosse appesa ad un gancetto? E perché la pistola ha fatto due volte fuoco e la seconda pallottola era a salve?
Fatto sta che le indagini porterebbero ad Aaron, accusato pure dalla matrigna e la cui parte nella vicenda sembra essere pericolosamente accertato; e la polizia non può fare a meno di arrestarlo, perché proprio mentre la vecchia madre sta per pronunciare il nome dell’assassino ( lui?), qualcuno, in mezzo ai presenti, le spara. Solo che nessuno ha visto chi ha sparato, e, cosa ancor più strana, la pistola che ha sparato, vien trovata sul letto della prima vittima: in pratica avrebbe misteriosamente da sola attraversato il corridoio che divide la camera dei Denny dalla stanza dov’è avvenuto il secondo delitto.
Tutto risolto? No, per nulla. Perché il sospettato viene a sua volta trovato morto nella sua cella, ucciso da un colpo di pistola sparato quasi a bruciapelo. La cosa strana è che : nessuno ha visto entrare chi l’ha ucciso, e tantomeno uscire; nessuna pistola è stata trovata dentro la cella.
Insomma tre delitti uno più insolubile dell’altro.
In mezzo a questa jungla di sospetti, false piste, indizi più o meno convincenti, indizi risolutori, strampalate analisi e altre per nulla strampalate, considerazioni artistiche e musicali, ricerche endocrine criminologiche, Stephen Bayard, riuscirà ad incastrare un assassino di mente superiore, astuto, vendicativo, e diabolico.
E’ evidente che il falso rigo su cui Antheil costruisce il suo romanzo, come abbiano detto prima, è costituito da un romanzo di Van Dine. Considerando l’anno cui risale la scrittura e non mera pubblicazione del suo romanzo (1929), Death in The Dark, avrebbe potuto avere come esempio solo uno dei prim romanzi vandiniani scritti sono a quell’anno. Tra questi viene scelto quello che ancor oggi è considerato forse se non il capolavoro uno dei suoi capolavori e quello che sicuramente ha influito più di tutti gli altri, sul romanzo poliziesco tout court: una catena di delitti che si verificano in una famiglia.
Da Van Dine aveva preso alcune caratteristiche cui abbiamo accennato più sopra. Dirò ancora che lo stesso narratore in prima persona Stacey Bishop, lo pseudonimo di Antheil, è modellato sul Van Dine, che compare nei romanzi e che è pseudonimo di Willard Huntington Wright.
Lì c’è la famiglia Greene, qui la famiglia Denny. In tutti e due vi è una matrigna, vedova. In entrambi, essa finisce per essere ammazzata. In entrambi vi è una biblioteca, in cui si trova un particolare libro, rivelatore per l’assassinio (il primo), in entrambi i casi vi è una mente diabolica che pianifica la strage; in entrambi i casi vi sono considerazioni artistiche; in entrambi i casi vi è un dottore, lì Von Blon, qui Stein; in entrambi i casi vi è un delitto commesso con una pistola che non si trova (il terzo omicidio), in entrambi i casi vi è qualcosa che viene aperto e che provoca la morte. Troppi elementi simili per non parlare di un esempio di super-vandinismo.
La cosa che maggiormente mi ha incuriosito, tuttavia è il fatto che in un romanzo costruito (forse) come omaggio a Van Dine e al suo modo di costruire i romanzi polizieschi, Antheil vi avesse inserito sue considerazioni sull’arte (Mirò, Picasso ) e sulla musica (Stravinskj, Schumann, Raff), attribuendole al protagonista; e soprattutto sue considerazioni (che gli valsero, come ricorda nella Prefazione Boncompagni, la considerazione della Polizia parigina) sulla natura endocrinologia del crimine: in particolare sul timocentrismo. Considerazioni che egli – nella trattazione del romanzo – affida al dottor Stein. Quello che però mi ha particolarmente colpito è come Stein parli del fenomeno e di come egli intenda guarirlo: e per far ciò, tra le altre, esprime proprie considerazioni sul fatto come, avvalendosi di determinati espedienti scientifici, si possa tramutare una massa di deficienti in una serie di menti brillanti. La creazione di una super razza? La descrizione che fa di Stein è di uno scienziato coltissimo, ma anche che crede ciecamente nel suo progetto. Il laboratorio con tutti i suoi apparecchi elettrici, e l’aura che riesce ad ottenere attorno al corpo umano, mi fanno pensare a Metropolis di Fritz Lang. Ma la considerazione che operando una modificazione radicale del timocentrismo si riesca a tramutare un criminale in un essere dal cervello brillante, un superuomo, come egli dice, mi fa pensare a Nietzsche, ma anche agli studi che vennero dopo di genetica e che individuarono il cromosoma della criminalità.
Al di là di questo, il romanzo pur essendo un trionfo della deduzione pura, è troppo difficile per il lettore medio: perché possa essere capito a fondo, necessita di un lettore che conosca determinate problematiche, e certamente questo può aver influito sul successo del romanzo. Forse anche la somiglianza notevole (e taccio su altre somiglianze ancor più dirette) con The Greene Murder Case, ebbe la sua importanza. Chissà..
Certo è che Antheil si aspettava un grande riconoscimento del pubblico, ed invece l’accoglienza non fu quella auspicata. Quello che ne risultò fu che un grande interprete del modernismo musicale statunitense, cercò senza grande fortuna di consegnare un’opera poliziesca di grande respiro alla storia del genere.
Sembra quasi la storia di un’altra interprete musicale statunitense, Blanche Bloch, anch’essa vandiniana, che consegnò alla storia un solo romanzo degno di nota: The Bach Festival Murders (1942).
Ma questa è un’altra storia.
Al di là di tutto ciò, un romanzo straordinario, pubblicato in Italia per la seconda volta in assoluto, dopo la prima pubblicazione del 1930.

Pietro De Palma

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