MARTIN EDWARDS, notevole scrittore inglese di gialli nonchè acutissimo critico di letteratura poliziesca, particolarmente versato alla Golden Age of Mystery, ha vinto poche ore fa l'Edgar Allan Poe Award 2016, l'Oscar per la Detective Fiction, bandito ogni anno da M.W.A., Mystery Writers of America, con il suo notevolissimo saggio, "The Golden Age Of Murder", che analizza la letteratura mystery tra le due guerre mondiali.
Le mie più vive congratulazioni (già esternate personalmente) e sinceri auguri di nuovi successi.
Pietro De Palma
venerdì 29 aprile 2016
lunedì 25 aprile 2016
Gilbert Keith Chesterton: La forma errata (The Wrong Shape, 1910) - da "L'Innocenza di Padre Brown", all'interno di "I Racconti di Padre Brown" - Editrice San Paolo, Cinisello Balsamo, 1985, Dodicesima Edizione
Era da tanto tempo che desideravo scrivere qualcosa
su Chesterton, il grande scrittore cattolico inglese, autore di fenomenali
libri, come quello su San Tommaso d’Aquino, che gli valsero l’apprezzamento del
pontefice di allora, Papa Pio XI ( il Papa dimenticato, quello che stava per
pronunciare la storica enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo, quando
morì nel 1939 prima di averla firmata). Nell’apprezzamento, Papa Pio XI appellò
Chesterton con titolo di Defensor Fidei,
titolo che non fu divulgato in Inghilterra visto che sarebbe apparso umiliante
che un suddito inglese fosse stato chiamato nello stesso modo ereditato dai Re
d’Inghilterra a partire da Enrico VIII. Però così è la storia: Chesterton,
convertitosi alla fede cristiana, dette così tante prove di conversione vera
nei suoi scritti da meritarsi il plauso del Vaticano. Alla sua morte ad
officiare la cerimonia del funerale fu chiamato un altro scrittore cattolico e
prelato, Mons. Ronald Knox , autore di molti romanzi mystery.
La conversione a tutti gli effetti data 1922. Ma
evidentemente dovette avvenire per tappe, e già parecchio tempo prima, almeno
un decennio, nei suoi scritti si
trovavano accenni, neanche tanto reconditi, ad una volontà di convertirsi.
Anche in quelli, tra i suoi scritti, che apparirebbero meno confacenti a ciò:
sto parlando de I Racconti di Padre Brown,
racconti di carattere poliziesco incentrati sulla figura di Padre Brown, un
prete cattolico molto acuto nei suoi ragionamenti, che sa andare in fondo al
cuore degli uomini e scoprire le peggiori nefandezze con la forza delle Fede.
La figura di Padre Brown fu conformata a quella del prete che operò in lui la
conversione, tale Padre John O’ Connor, cattolico irlandese, che gli stette
vicino fino alla morte. Tuttavia mentre il Padre Brown protagonista delle sue
storie è un omino trasandato, sempre con un vecchio ombrello, quello originale
non lo era affatto.
A Padre Brown vennero dedicati vari libri, una volta
che il personaggio si meritò un inatteso successo. L’innocenza di Padre Brown è il primo di essi. E’ formato dai primi
folgoranti racconti: La croce azzurra, Il giardino segreto, Gli strani passi,
Le stelle volanti, L’uomo invisibile, l’onore di Israel Gow, La forma errata, I
peccati del principe Saradine, Il martello di Dio, L’occhio di Apollo,
All’insegna della spada spezzata, I tre strumenti di morte. I primi quattro di essi ad essere stati
pubblicati, furono messi assieme a formare una raccolta chiamata I Racconti di Padre Brown, poi estesa a
riunire tutti i racconti.
Essi
sono: La croce azzurra (The Blue Cross, Settembre 1910), Il
giardino segreto (The Secret Garden,
Ottobre 1910), Gli strani passi( The
Queer Feet, Novembre 1910), La forma errata (The Wrong Shape, Dicembre 1910).
Il più metafisico dei primi racconti, un autentico
capolavoro, al pari del primo “La croce azzurra” (che presenteremo
prossimamente), è La forma errata.
Il racconto comincia con una descrizione: viene
presentata una costruzione bassa, di color bianco e verde pallido, con delle
persiane ed una terrazza, con delle tettoie ad ombrello ,e con una strana forma
a T . In questa, che era una villa estiva, appena al di fuori di Londra, verso
la campagna, all’atto degli eventi, vive il poeta Leonard Quinton famoso per i suoi poemi esotici, in cui parla spesso di paradisi e
inferni orientali. Qui è ospitato anche Padre Brown, perché il suo amico ex
ladro Flambeau era stato amico del padrone di casa a Parigi. Appena arrivato,
il prete avverte nell’atmosfera un’aura strana, maligna, malvagia. E forse la
stessa forma a T, una T non perfetta alimenta le sue perplessità. Questa forma
a T, è tale che la gamba della t, più corta del braccio trasversale, sia
formata da sole due stanze allungate e intercomunicanti: lo studio, in cui il
poeta mette per iscritto le sue emozioni; e la serra, un ambiente ricco di
fiori esotici e piante strane, dove Quinton, aiutato dai narcotici, sogna e
medita i suoi slanci pindarici.
Nella villa, il poeta accoglie per metà dell’anno un
guru, un santone indiano che lì gode di ospitalità, e che fornisce al poeta gli
spunti per i suoi poemi. Oltre a lui, altre poche persone: la moglie del poeta,
una donna che da molti anni assiste il marito che ha ecceduto nell’uso di oppio
per descrivere gli stati onirici da esso provocati ed ora , ed ora è diventato
di natura astiosa ed instabile; lei invece è una creatura adorabile, seria,
posata e con una gran massa di capelli d’oro, ma, come dice Brown, “E’ una di
quelle donne che compiono il loro dovere per vent’anni ; e poi commettono cose
terribili”; infine c’è il fratello della donna, Atkinson, un parassita, che
compare vestito di bianco, con una sgargiante cravatta rossa di sghimbescio ed
un cappello sul cocuzzolo della testa, che è sempre a caccia di quattrini da
sperperare, senza un lavoro e un’occupazione. E’ detestato dal medico del
poeta, il dottor Harris,un omino, con un paio di baffetti, molto ordinario ma
dall’aria capace.
Padre Brown avverte qualcosa di malvagio lì. Lo
attribuisce al santone indiano, un mago: un primo segno è dato dal ritrovamento
di un pugnale strano, dalla lama ondulata, fatta non per tagliare ma per
torturare, nell’erba alta del giardino. Al santone indiano e alla sua strana
religione, e alla scrittura indiana, così ricca di linee che che sembrano “come serpenti che si attorcigliano per
scappare”, Padre Brown guarda torvo, perdendosi “in una nebbia mistica”. Lo
stesso suo compagno Flambeau riconosce davanti all’attonito medico, che quando
Brown sembra perso in discorsi mistici che sembrano folli, accadono poi cose
cattive. In un certo senso egli è un sensitivo. Davanti al medico che gli
contesta le sue affermazioni, Padre Brown afferma che mentre la casa è ridicola
per forma ma non è errata, quel pugnale lo è. Ed è il prologo alle forme
sbagliate.
In quel mentre Quinton saluta i presenti perché deve
andare a fare il solito riposino pomeridiano. La signora Quinton rincasa, e il
dottore si reca dal suo assistito per assicurarsi che riposi bene e che prenda
il tonico, ma in quel mentre il cognato inetto riesce ad intrufolarsi nello
studio prima che la porta venga chiusa, sì da spuntare una mezza sterlina allo
stesso Quinton prima che questo di addormenti.
Le nubi si addensano e l’aria manifesta quella
tipica elettricità che annuncia l’imminente nubifragio: Padre Brown e Flambeau
vedono prima il santone indiano, che
avevano visto prima mentre pregava e lo rivedono di nuovo ora, come se fosse un
uccello di cattivo augurio. Mentre lo vedono ancora una volta sostare nel
giardino vicino alla casa, arriva trafelato il dotto Harris che accusa il
cognato di aver fatto qualcosa a Quinton: infatti lui ha visto attraverso la
vetrata che il suo assistito giace in una posizione innaturale. Preoccupato, si
slancia verso la casa, tallonato da Padre Brown mentre Flambeau e Atkinson
rimangono dietro.
Aprono lo studio ed ecco, trovano sulla scrivania un
foglio dalla forma strana cu cui sono scritte le parole sibilline: “Muoio di mia mano; tuttavia, muoio assassinato”. Mentre
Padre Brown guarda allibito il foglio, il dottore si slancia per la serra,
tanto per tornare immediatamente dietro ed annunciar e la morte di Quinton: si
è pugnalato al cuore. La mano giace sul pugnale. Ed il pugnale è proprio quello
trovato prima nell’erba dalla forma ondulata.
Viene chiamata la polizia.
Il suicidio è lampante. Eppure non convince Padre
Brown. Cosa non lo convince: la forma del foglio. Un’altra cosa sbagliata,
errata. Infatti non è un foglio rettangolare ma da un angolo manca una parte,
come se fosse stata asportata.
Padre Brown sta a meditare, guarda, esamina persino
le carte buttate nel cestino della carta straccia, trova delle forbicine ed una pila di fogli
tutti mancanti di un angolo. Prova le forbici, congettura, conta i fogli (23) e
gli angoli (22) e poi, mentre si sta aspettando l’arrivo della polizia, lui e
Flambeau si siedono sotto una tettoia in giardino a fumare e a discutere della
vicenda. Padre Brown definisce il caso “molto strano”, come strano lo definisce
Flambeau. Tuttavia l’approccio deduttivo del prete definisce la complessità
psicologica della questione: “Voi lo
chiamate strano ed io lo chiamo strano , e tuttavia intendiamo due cose
completamente opposte. La mente moderna confonde sempre tra loro due idee
diverse: mistero nel senso di ciò che è meraviglioso, mistero nel senso di ciò
che è complesso…Un miracolo è sorprendente ma è semplice…E’ una forza che viene
direttamente da Dio (o dal diavolo)…La qualità di un miracolo è misteriosa, ma
la sua maniera di accadere è semplice. Ora la maniera di accadere di questa
faccenda è tutt’altro che semplice…E’ intervenuto in questo incidente un che di
contorto, di brutto, di complesso, che non è proprio dei colpi diretti del
cielo o dell’inferno. Come uno può conoscere la traccia tortuosa di una
chiocciola, così io conosco la traccia tortuosa di un uomo…di tutte queste cose
tortuose la più tortuosa è stata quel pezzo di carta: più tortuosa del pugnale
che uccise il pover’uomo…cioè il foglio sul quale Quinton scrisse: “Muoio per
mia mano”. La forma di quel foglio, amico mio, era errata, se ne ho mai viste
di simili, in questo cattivo mondo” (pag. 131).
In sostanza, laddove gli altri pensano che Quinton
si sia suicidato, perché nessuno può averlo ucciso, visto che egli dormiva fin
al momento in cui è morto, davanti ai loro occhi, al di là dei vetri della serra,
e tutti i presenti erano nel giardino, Padre Brown sospetta, anzi sa già che
egli è stato ucciso. Ma come? Un delitto che sa tanto di illusionistico. Come
il guru indiano? Ma anche lui era nel giardino! Un delitto avvenuto con
l’ipnotismo? No. Eppure i fatti non danno ragione al prete. Ma lui appunta
tutto il suo castello di carte, su quell’altra carta, dalla forma sbagliata. A
Flambeau che gli chiede perché mai Quinton abbia confessato di essersi ucciso
se non si è suicidato come dice Brown, il prete risponde che quello non ha mai
confessato di essersi suicidato. L’altro gli controbatte chiedendo se lo
scritto sia stato falsificato, ma la risposta è no: la frase trovata è proprio di mano di
Quinton, come egli ha potuto rilevare, solo che fu redatta su un pezzo di carta
dalla forma errata. Ventitre erano i
fogli con l’angolo tagliato, compreso quello con la frase, ma soli ventidue
angoli di carta ha trovato, e quindi quello che proveniva dal foglio
incriminato doveva essere stato distrutto. Perché? Perché su di esso vi doveva
essere qualcosa non più largo di una virgola, cioè…due virgole. In altre parole
chi ha tagliato l’angolo l’ha fatto perché una frase con le virgolette, che per
caso cominciava un foglio bianco, fosse privata degli apici e sembrasse una
frase scritta di pugno da un suicida.
Padre Brown sa chi ha ucciso il poeta tra Atkinson,
tra il santone, il dottore o la moglie. Eppure concede una via di fuga
all’assassino: il suo scopo non è quello di acchiappare il reo e consegnarlo
alla giustizia, quanto quello di redimere un peccatore, di salvare un’altra
pecorella che si stava perdendo. Gli offre di scrivere una relazione in cui
menzionare cose che sa solo lui e di consegnargliela confidando nel fatto che
egli, il prete, eserciti una professione del tutto confidenziale. In sostanza,
gli chiede di confessarsi attraverso una lettera che gli consegnerà. Cosa che
viene fatta.
L’assassino si confessa e confessa il perché abbia
ucciso il poeta, e nel tempo stesso conferma l’ipotesi del prete circa la forma
errata del foglio. E confessando il suo delitto, ammette che per la prima volta
prova rimorso di quello che ha fatto, lui che sempre ha agito secondo una
natura che non ammetteva la religione.
Il racconto è uno di quelli chestertoniani che tanto
piacquero a Carr, tant’è vero che il personaggio del Dotto Fell fu creato
guardando proprio alla figura mastodontica di Gilbert Keith Chesterton stesso.
E’ infatti un racconto con Delitto Impossibile, anzi con una Camera Chiusa
classica: la serra è uno spazio chiuso da pareti di vetro, la cui unica
entrata/uscita è costituita dalla porta di intercomunicazione con lo studio, la
cui porta a sua volta è rimasta chiusa, e d’altronde tutti i personaggi di
questo mini-dramma hanno interagito fuori della serra, nel giardino, tranne la
moglie che è andata in camera propria, ma che era visibile dal giardino
sottostante; e ciascuno di essi è stato sorvegliato per così dire dagli altri.
Per cui diventa arduo dimostrare come l’assassino abbia fatto ad uccidere, se è
vero che fino ad un dato momento Quinton era vivo e poi muore, suicida..ma non
tanto.
Individuare l’assassino non mi sembra tanto arduo,
mentre lo è capire come abbia ucciso e soprattutto capire il movente
dell’omicidio, perché ciascuno degli attori del dramma, apparentemente non ha
motivi per uccidere Quinton…anzi. Per tutti infatti il poeta rappresenta la
classica “gallina dalle uova d’oro”.
E’ chiaro che nella actio delicti una parte
importantissima la gioca una sorta di gioco illusionistico, che ben si sposa
con l’atmosfera in cui si muove per esempio un guru indiano; ma anche il
depistaggio del foglio dalla forma sbagliata è un must, essendo un saggio
sorprendente di deduzione. A questo gioca – non l’ho detto prima ma ora sì – il
fatto che il libro che il poeta e drammaturgo stava scrivendo, incentrato su
come un santone indiano potesse riuscire con la forza del pensiero a far sì che
un colonnello inglese si uccidesse con le proprie mani , sia scomparso,
bruciato nel camino, com’è rivelato nella confessione dell’omicida. Il fatto
che lì dimori un guru indiano non significa però automaticamente che egli sia
l’assassino.
Mi sembra che Chesterton sia debitore almeno di
Zangwill, così come lo stesso Carr può aver tratto da questo racconto
l’ispirazione per quei suoi lavori in cui si parla di delitto a distanza, tipo
“The Reader is Warned”. E può aver
influenzato sia Vindry che Agatha Christie.
La messinscena si sostanzia in tre
momenti ben distinti che sono indispensabili gli uni agli altri: si deve
aspettare che Quinton dorma (e che il dottore quindi gli propini il narcotico),
si deve creare l’ultimo finto messaggio del suicida, ed infine bisogna
uccidere. Tuttavia sottolineo come lo stesso messaggio del suicida rivela nella
sua doppiezza, come la stessa premeditazione dell’omicida fosse non proprio
scevra da una riflessione su quello che stava facendo: l’omicida non è un
essere malvagio che uccide per interesse, oddio è anche quello, ma non è detto
che il suo fine non sia meno nobile di altri, perché tende ad una situazione
migliore sia per l’omicida stesso che per la vittima (che è meglio che sia
morta, una volta per tutte!); inoltre, essendo una persona che cela una sua
natura morale, nell’amoralità esteriore dell’atto che ha compiuto, è come se
avesse, nel momento in cui ha compiuto l’atto, voluto suggerire che il suicidio
non era veramente tale: utilizzare infatti uno scritto della vittima in cui
afferma di morire per mano propria ma che in effetti sia morto per mano di un
altro, fotografa esattamente quanto in realtà accadrà a Quinton stesso. E
quindi suggerisce che anche se l’apparenza della situazione suggerisce che si
sia trattato di suicidio (la vittima è stata trovata con la mano che impugnava
ancora il pugnale affondato nel cuore), in realtà l’interpretazioneesatta dello
svolgersi dei fatti dimostrerà l’omicidio. Per di più premeditato. A questo punto, giacchè l’omicida premeditava
da tempo di uccidere la vittima, non sarebbe stato più semplice falsificare una
lettera per volta e realizzare un messaggio che parlasse solo di suicidio?
Comunque sia, ci troviamo dinanzi
ad un piccolo capolavoro.
Che è tale anche per la
raffinatissima scrittura (la descrizione dei luoghi rivela perizia narrativa
per esempio). Non a caso Gramsci nella sua Lettera
a Tania, del 6 ottobre 1930 ( da Lettere dal Carcere), analizza l’opera
di Chesterton raffrontandola per esempio a quella di Conan Doyle:
“Ti
ringrazio per tutto ciò che mi hai mandato. Non mi sono stati ancora consegnati
i due libri: la «Bibliografia fascista» e le novelline di Chesterton che leggerò volentieri per due ragioni. Primo
perché immagino che siano interessanti almeno quanto la prima serie e secondo
perché cercherò di ricostruire l'impressione che dovettero fare su di te. Ti
confesso che questo sarà il mio diletto maggiore. Ricordo esattamente il
tuo stato d'animo nel leggere la prima serie: tu avevi una felice disposizione
a ricevere le impressioni piú immediate e meno complicate dai sedimenti
culturali. Non eri neanche riuscita ad
accorgerti che il Chesterton ha scritto una delicatissima caricatura delle
novelle poliziesche piú che delle novelle poliziesche propriamente dette. Il
padre Brown è un cattolico che prende in giro il modo di pensare meccanico dei
protestanti e il libro è fondamentalmente un'apologia della Chiesa Romana
contro la Chiesa Anglicana. Sherlock Holmes è il poliziotto «protestante» che
trova il bandolo di una matassa criminale partendo dall'esterno, basandosi
sulla scienza, sul metodo sperimentale, sull'induzione. Padre Brown è il prete
cattolico, che attraverso le raffinate esperienze psicologiche date dalla
confessione e dal lavorio di casistica morale dei padri, pur senza trascurare
la scienza e l'esperienza, ma basandosi specialmente sulla deduzione e
sull'introspezione, batte Sherlock Holmes in pieno, lo fa apparire un
ragazzetto pretenzioso, ne mostra l'angustia e la meschinità. D'altra parte
Chesterton è grande artista, mentre Conan Doyle era un mediocre scrittore,
anche se fatto baronetto per meriti letterari; perciò in Chesterton c'è un
distacco stilistico tra il contenuto, l'intrigo poliziesco e la forma, quindi
una sottile ironia verso la materia trattata che rende piú gustosi i racconti.
Ti pare? Ricordo che tu leggevi queste novelle come se fossero state cronache
di fatti veri e ti immedesimavi fino ad esprimere una schietta ammirazione per
padre Brown e per il suo acume maraviglioso, in modo cosí ingenuo che mi
divertiva straordinariamente”.
La riflessione dello storico
marxista, mi sembra perfettamente centrata, sia per il tempo in cui viene
creato Padre Brown (più o meno quello di Doyle) sia per il fatto che Padre
Brown si sostanzi in pratica in un alter Sherlock Holmes però cattolico. Mentre
infatti S.H. è un esempio della
società in cui il positivismo
meccanicistico impera (S.H. analizza un determinato fatto basandosi su indizi e
sperimentazioni scientifiche, e quindi risolve un problema basandosi
sull’induzione), Padre Brown è un esempio d introspezione psicologica e di
deduzione, e un connubio di fede e di ragione (una negazione quindi del
fideismo), oltre che di pensiero aristotelico applicato alla patristica.
Inoltre il modo di pensare di Padre Brown fa leva su un’elevata riflessione
psicologica che in S.H. manca del tutto: Padre Brown, siccome pretende di
andare in fondo al cuore dell’uomo per trovarvi il Male (o il Bene), finisce
per capire il reo in quanto riesce a pensare come lui. Inoltre, basa tutte le
sue azioni, su riflessioni teologiche applicate, che risultano sempre
estremante azzeccate per sondare il problema che gli si propone.
Pietro
De Palma
martedì 19 aprile 2016
Christianna Brand : La calda nebbia bianca (The Gemminy Cricket Case anche Murder Game, 1968) – trad. Tina Honsel – 1^ edizione Autunno Giallo 1977, 2^ edizione Speciali del Giallo Mondadori n.69 dell’Aprile 2013.
Tre anni fa usciva lo Speciale n.69 de Il Giallo Mondadori, curato come
sempre dall’inossidabile e lungimirante Mauro Boncompagni, che presentava, nella formula consueta di due romanzi + un racconto: I
Quattro Giusti (The Four Just Men) di Edgar Wallace, La tragedia in casa Coe (The Kennel Murder Case) di S.S.Van Dine e, infine, La calda nebbia bianca (The Gemminy Cricket Case) di Christianna Brand.
Dobbiamo
dire, in tutta sincerità, che mai come in questo caso, ci troviamo
dinanzi e tre opere di assoluta eccellenza, accomunate da un
denominatore comune: un mistero di Camera Chiusa che le riguarda ( in
inglese si direbbe Locked Room).
Wallace
e S.S. Van Dine sono noti, come i loro romanzi, delle pietre miliari
nel genere, ma pur sempre reperibili in altre edizioni, perché molto
noti (anche se in Mondadori ambedue mancavano da un bel po’ nelle
edicole). Tuttavia, se mai avessi voluto in qualche modo incentivare
l’acquisto di questo volume ( a me non sarebbe venuto un centesimo nelle tasche
se si fossero venduti o meno, più copie), se volessi “convertire come un
missionario i soggetti restii al problema del mistero da Camera Chiusa”,
avrei usato e userei come esempio il racconto, questo sì pubblicato davvero molti
anni fa (Autunno Giallo Mondadori 1977) e leggendario, per l’aura che lo
circonda: sicuramente uno dei migliori racconti del genere Locked Room
che mai in assoluto siano stati pubblicati. Direi sullo stesso piano di The Third Bullet di Carr e By Unknown Hand di John Sladek.
Per quale motivo? Scopriamolo assieme.
Thomas
Gemminy è un noto penalista londinese che, assicuratosi un bel
patrimonio personale dalla sua attività forense, si è dedicato ad
attività filantropiche a favore di bambini provenienti da situazioni
familiari altamente disagiate: in sostanza bambini parenti di noti
criminali che, rimanendo nello stesso pessimo ambiente familiare di
provenienza, avrebbero potuto sviluppare gli stessi germi delinquenziali
dei loro parenti. Questi bambini sono stati da lui e dalla moglie,
finchè è vissuta, allevati, istruiti e tutelati, avviandoli a sicuro
avvenire; talvolta ha anche fatto in modo che, quelli in possesso di
tare ereditarie, emigrassero, in modo da perdere i riferimenti di base e
quindi essere più liberi di crearsi una vita senza sapere nulla del
proprio passato. Si distinguono questi soggetti dall’avere due cognomi
assieme: il loro e quello del patrigno.
I
tre ragazzi a cui Gemminy si sia più affezionato sono tre: Giles
Gemminy Carberry, Rupert Gemminy Chester e Helen Gemminy Crane; i due
maschi sono entrambi innamorati di Helen e lavorano nello studio legale
del patrigno. Tuttavia c’è un incomodo: un terzo “grillo” (così venivano
chiamati i suoi ragazzi da Thomas Gemminy), che i due maschi non
conoscono, pare pure innamorato di Helen.
Il
racconto inizia con Giles che va trovare, presso una casa di riposo, un
suo conoscente, anziano d’età, particolarmente versato alla risoluzione
di enigmi e gliene sottopone uno molto arduo: Thomas Gemminy è stato
ritrovato strangolato, legato e pugnalato ad una spalla, nel suo studio,
quasi disadorno, con la scrivania sulla quale è accasciato, divorata
dalle fiamme e una finestra rotta nel mezzo. La porta era sbarrata e
chiusa dall’interno, dalla finestra rotta al marciapiedi sottostante
c’erano più di quindici metri di strapiombo, e l’arma con la quale è
stato pugnalato (ed esce ancora del sangue quando irrompono i
poliziotti), un tagliacarte, è sparito dalla scrivania. I poliziotti,
la cui Centrale è sita proprio di fronte all’abitazione dell’avvocato,
sono stati avvertiti da una telefonata, arrivata dallo studio di
gemmino, in cui l’avvocato con voce disperata aveva parlato di “qualcosa
che scompare nel nulla”. “di “qualcosa di strano alla finestra”, e di
“due lunghe braccia”. Arrivati alla porta dello studio dopo neanche due
minuti, trovano Rupert che sta cercando di buttare giù la porta
sbarrata; riescono a rompere due pannelli della porta, uno di essi
inserisce un braccio e fa scorrere i 2 chiavistelli orizzontale e
verticale, poi tutti quanti riescono a spalancare la porta e trovarsi
davanti allo spettacolo orrendo: l’avvocato morto, il cadavere in
procinto di bruciarsi, la finestra rotta che ancora vibra, dei frammenti
di essa sul davanzale e ovviamente, nessuno nella stanza, e la
scrivania arsa dalle fiamme. Nel fumo che soffoca e brucia gli occhi,
Rupert trova un messaggio che parla di Helen e corre via, un poliziotto
esce correndo per andare a chiamare i pompieri, ma tutti gli altri
rimangono lì a cercare prove, inesistenti.
Un’ora
dopo viene trovato ucciso un poliziotto di ronda, tale Dinkum Cross,
nelle stesse modalità dell’avvocato: legato, strangolato e pugnalato.
Anche lui, prima di essere ucciso e poi ritrovato nella vecchia cisterna
di una fattoria lì vicino, aveva parlato, da una cabina telefonica in
cui si era rifugiato, di “Lunghe braccia” e di qualcosa che era “svanito
nel nulla”.
Tocca al vecchio far qui la parte dell’investigatore.
Basandosi
sul proprio acume e sulla propria deduzione, ricostruisce le fasi
dell’omicidio, elaborando tre ipotesi di delitto, ognuna per ciascuno
dei tre giovani, che fosse stato l’assassino. Poi elabora anche una
quarta ipotesi, a carico del quarto incomodo, supponendo che potesse
essere il poliziotto ucciso e in quel caso che lui poi fosse stato
ucciso da uno dei tre per una qualche ragione legata alla vendetta per
la morte del vecchio penalista, che in sostanza si opponeva a che uno
dei protetti maschi sposasse Helen: sarebbe potuto trattarsi di tara
ereditaria a danno di Rupert, Giles o Dinkum, oppure a carico della
ragazza. Fatto sta che il movente è questo, l’amore tra Helen e uno dei
tre maschi, giacchè la pista legata al patrimonio viene scartata subito
in quanto esso è stato destinato interamente alla Fondazione, a favore
dei ragazzi disagiati. Tuttavia gli alibi paiono escludere i tre amici:
Giles che aveva appuntamento con l’avvocato alle 14,30 ha visto,
arrivando alla casa in cui abita assieme a Rupert, l’amico che andava
via in anticipo (avendo lui l’appuntamento alle 16 con Gemminy) col
soprabito al braccio: in quei momenti la ricostruzione della polizia ha
messo in evidenza che stava morendo l’avvocato, quindi i due giovani
sono protetti dall’alibi di trovarsi lontano dal luogo dell’omicidio;
rimarrebbe Helen, ma Giles afferma che c’era stato un equivoco verbale
con lei, essendosi recata non in un posto che si chiamava Bell ma Dell.
In sostanza rimarrebbe da vagliare la posizione del poliziotto.
Ma
poi il vecchio ritorna sui suoi passi, riprendendo in esame Rupert con
un’altra ipotesi, e qui finisce la storia. Anzi finirebbe, se non ci
fosse la vera fine, con due colpi di scena finali, uno più travolgente
dell’altro, in cui viene indicato il vero assassino e l’identità del
vecchio “detective”.
Ho
taciuto sia sulle varie ipotesi di ricostruzione del delitto, sia
ovviamente sull’identità dell’omicida e su quella del vecchio, e su
tantissimi altri particolari, dando il sunto della storia, perché
sarebbe ingiusto privare il lettore della gioia di leggere questo
gioiello.
Io
il racconto l’ho letto qualche anno fa, quando lessi parecchi bei
racconti di quell’Autunno Giallo tra cui mi ricordo un racconto di Hoch
(Il serpente volante) e uno di Anthony Gilbert che mi colpì. Il mio
edicolante, dal quale ho acquistato i due classici in edicola e uno dei
due gialli inediti, mi ha permesso di leggiucchiare la prefazione di
Mauro Boncompagni, che sostanzialmente condivido, riservandomi qualche
osservazione: il Van Dine è bellissimo e se è vero che per originalità
del plot e densità dell’intreccio è superiore agli altri due, La
Canarina assassinata gli va molto vicino per me, non tanto per la
soluzione – che giunge inaspettata, “per opera dello Spirito Santo”,
dopo un sopralluogo e la scoperta di un oggetto rivelatore, acquisito
per puro caso – ma per le mille sfaccettature della personalità di Vance
che vengono rivelate, e ognuna di queste sfaccettature concorre alla
soluzione del caso. Laddove in “Coe”, Vance incarna il detective anni
trenta, molto poco salottiero e molto serio, in “Canarina”, è invece la
quintessenza della frivolezza, del sarcasmo e dell’erudizione; e quando
tratta di cose che apparentemente non hanno nessun collegamento con il
mistero, alla fine esse hanno la loro importanza perché concorrono in
qualcosa alla soluzione, eccezion fatta per i rimandi letterari. Ognuno è
padrone di pensarla come crede. C’era addirittura chi (Julian Symons)
diceva che: “The decline in the
Vance books is so steep that the critic who called the ninth of them
one more stitch in his literary shroud was not overstating the case”(Julian Symons :Bloody Murder, 2^ edizione, Penguin Books, 1985, pag.117). E i soli due romanzi di cui parlava veramente bene, erano The Greene Muder Case e The Bishop Murder Case. E chi, come Barzun parlava di The Kennel Murder Case, così: “Though
dogs can be dangerous in life and in detection, this imbroglio by the
precious and pedantic Van Dine is rather better than the rest of those
written after 1930. It is a locked-room murder, there are clues, and
Vance is not obnoxious beyond endurance” (Jacques Barzun – Wendell Hertig Taylor, A Catalogue of Crime, Harper & Row, 1971)
Per quanto attiene invece al superbo racconto di Christianan Brand (pubblicato per la prima volta nel 1968, nella raccolta What Dread Hand?), bisogna dire che la qualità del plot è altissima. La tensione e l’intelligenza nel
creare le situazioni è miracolosa. Creando il plot, Christianna Brand
elabora in parte idee di altri scrittori a lei precedenti: quindi, in
sostanza, è una manierista, ma una manierista di altissima qualità e
assai intelligente, giacchè laddove utilizza idee non sue, crea delle
situazioni assolutamente nuove, che in qualche modo la fanno assurgere a
nuovo modello da imitare: mi riferisco al motivo per cui viene ucciso
il poliziotto, veramente una grandissima idea. Devo dire in tutta
sincerità, che, quando lessi la storia anni fa, cimentandomi nella
risoluzione dell’enigma (perché in sostanza c’è anche questo in questo
romanzo, una sorta di sfida riferibile a quelli di Ellery Queen: la gara
che contrappone il lettore allo scrittore nello spiegare lo svolgimento
dei fatti), capii parecchie cose che poi vennero spiegate
successivamente. E una delle soluzioni che volli dare, in parte,
collimava, con quella finale: mi accorsi di aver capito il trucco. Però
se si vede bene, anche la “grandissima trovata” di Christianna Brand,
pur essendo “originale”, è nello stesso tempo una variazione di una
“grandissima idea rivoluzionaria per l’epoca in cui fu concepita” di un
altro autore, francese, di cui non faccio il nome, poi sfruttata
largamente. L’idea di Brand e l’idea di questo grandissimo autore
sostanzialmente sono le due facce della stessa medaglia: l’autore
originario si basò sull’uso distorto di una identità, la Brand utilizza
lo stesso procedimento ma utilizzando un oggetto, che in un certo senso
ne è il simbolo. Lo ripeto: una trovata veramente geniale!
“Il
detective” imprestato alla storia, il vecchio che Giles va a trovare,
in quella che io definisco implicitamente “una sfida col lettore”,
scarta le varie soluzioni una alla volta, e in questo la Brand ha dei
riferimenti storici: The poisoned chocolates case di Berkeley, in cui ognuno dei partecipanti alla riunione elabora una propria teoria diversa in qualcosa dalle precedenti, e The Greek Coffin Mystery
di Ellery Queen, in cui non ci sono diverse spiegazioni associate a
diversi soggetti, ma uno solo, Ellery, che elabora 4 soluzioni diverse, e
scartandone tre, perviene a quella definitiva: un po’ quello che
avviene qui.
Il
racconto si chiama “la calda nebbia bianca” in italiano, in riferimento
all’obnubilamento mentale dell’omicida: quando sfuggirà a quella calda
nebbia bianca che gli invade la mente, riuscirà a ricordarsi come sono
andati i fatti. Questa calda nebbia bianca mi ha ricordato Le brouillard rouge,
“Nebbia Rossa” di Paul Halter che ha stretti legami col nostro titolo:
l’omicida è folle, l’inizio trova la propria spiegazione alla fine nel
nostro, quasi alla fine in quello di Halter, e la Nebbia rossa è quella
che offusca la mente di Jack The Ripper quando è preso dal raptus
dell’omicidio. Ovviamente è Halter che avrebbe potuto prendere qualcosa
dal racconto della Brand!
Aggiungerei che se è vero che Queen si collega a Van Dine, è vero che anche Brand si ricollega a The Finishing Stroke
di Queen. La scrittrice, in certo senso, varia il riferimento,
sdoppiandolo: si comporta cioè come farà più volte, dopo, Paul Halter
nei suoi romanzi: prendere un’idea base e variarla . Chi ha letto il
romanzo del ’58 di Ellery Queen mi ha capito (ma ovviamente dopo aver
letto questo racconto), chi no, lo reperisca, perché si tratta a mio
avviso di uno dei migliori in assoluto della coppia.
Un’ultima osservazione mi sembra pertinente: il modus operandi dell’omicida mi sembra affine a quello dell’omicida in Death From a Top Hat
di Clayton Rawson. Infatti in entrambe le opere, la successione degli
eventi, dei due omicidi, non è quella effettiva, quella che sembra a
prima vista.
Detto questo, non mi resta che augurare a chi leggerà questo racconto, di godere della lettura di questo must.
Pietro De Palma
domenica 17 aprile 2016
John Dickson Carr : La Fiamma e la Morte (Fire, Burn!, 1957) - trad. Maria Antonietta Francavilla - I Classici del Giallo Mondadori: N° 408 1^ edizione, 1982; N° 1320 2^ edizione, 2012.
Mi ricordo che qualche anno fa, quando fu
ripubblicato questo romanzo di Carr, sul Blog Mondadori qualcuno volle dire
quale fosse secondo lui il migliore giallo storico di Carr: da più parti si
disse Il Diavolo vestito di Velluto e
un altro romanzo; io, detti la palma del
vincitore proprio a Fire, Burn! , e
di questo sono ancora ben sicuro. In quell’occasione, la ripubblicazione del
romanzo, Mauro citò John Cooper, autore di un libro sul collezionismo dei libri
gialli in cui aveva usato gli stessi termini miei per definire Fire, Burn! il migliore giallo storico
di Carr (ed uno dei migliori in assoluto della sua produzione lo riteneva
l’autore stesso).
Anthony Boucher,
il grande critico e romanziere poliziesco nella sua recensione sul New
York Times Book Review, affermò al
tempo“As history, as romance, as mystery,
as detection, the history is splendid, with an exact and detailed picture of
the Yard’s early days, an alluring love story, copious action and a solution
wholly surprising”.
Il romanzo appartiene al secondo periodo di Carr, quello che intercorre tra la fine del secondo conflitto mondiale e l'inizio degli anni '60, essendo stato pubblicato per la prima volta nel 1957.
Il romanzo gioca su un salto indietro nel tempo
dell’Ispettore di Scotland Yard John Cheviot che è in taxi e si sta dirigendo a
Scotland Yard. Improvvisamente perde conoscenza e si ritrova nella Londra del
1829: è in carrozza e sta andando nella vecchia sede di Scotland Yard. Non sa
come sia arrivato lì e chi sia, ma ben presto acquista consapevolezza di essere
anche lì un poliziotto; per di più è di famiglia benestante, ottimo spadaccino
e tiratore con la pistola, lottatore e giocatore, tombeur de femme per di più:
è l’amante infatti di lady Flora Drayton. A Scotland Yard è convocato in quanto
chiede di collaborare con la polizia e mettere le sue qualità al servizio del
governo. Il suo primo caso sembra alquanto banale: dovrà scoprire chi rubi il
mangime dalle gabbie degli uccelli di Mary Boyle, Contessa di Cork.
John Cheviot non crede alle proprie orecchie:
possibile che gli si chieda una cosa simile? Il fatto è che la nobildonna è una
delle persone nobili che appoggia l’istituzione di una organizzazione forte ed
efficiente e quindi non la si può scontentare.
John Cheviot
vi dovrà andare in compagnia della sua amante, nobildonna anch’essa, e
amica della contessa. E lì sarà
raggiunto da Alan Henley, segretario di Scotland Yard.
Ben presto John capisce che connesso al furto del
mangime vi è anche il furto di gioielli della contessa: infatti essi dopo
essere stati sottratti dalla cassettina nella camera della contessa, sono stati
nascosti nel mangime degli uccelli. In altre parole vi è una complicità in casa
della contessa, nonostante ella si fidi ciecamente dei suoi congiunti, protetti
e servitori.
Mentre John sta cercando di capirci qualcosa, viene
uccisa sotto i suoi occhi una giovane aristocratica, protetta della contessa,
Margaret Renfrew: la giovane è stata colpita da un proiettile invisibile e
silenzioso, visto che né John né la sua amante lì vicino né tantomeno Henley hanno sentito né sparo né tantomeno odore di
polvere da sparo. Tuttavia, poi, sottoposta ad autopsia, verrà recuperato una
palla di piombo assolutamente sferica, pulita e non invece annerita dalla
polvere da sparo.
John ha trovato una piccola pistola, caduta dal
manicotto che porta Flora con sé, e nella foga di proteggerla, lamette da parte
non consegnandola : chieste le ragioni e perché portasse una pistola, quella
gli risponde che l’aveva trovata lì, che era sua ma l’aveva persa da tempo, e
che quindi pensava che qualcuno l’avesse lasciata in bella vista per
accreditare a lei qualche colpa. Del resto, gli dice, la presenza del manicotto
è spiegata dal fatto che uno dei suoi due guanti si era rotto e non voleva fare
cattiva figura.
Nella sala, si trova anche a fronteggiare un
capitano della guardie, Hugo Hogben che con lui aveva avuto uno scontro
precedentemente. Questo presuntuoso Hogben è accompagnato da un amico di
Cheviot, Freddie Darbitt. A Darbitt,
Lady Cook aveva rivelato quello che in seguito rivelerà a Cheviot: che proprio
la Renfrew era il misterioso ladro che le aveva sottratto un anello con un
solitario. E che lei, proprio lei, la Contessa di Cork, per nascondere le cose
preziose, le aveva sepolte nel mangime dei beverini degli uccelli, non
prevedendo che qualcuno l’avesse spiata e poi avesse provveduto di notte a
vuotare i contenitori del mangime degli uccelli, Perché li aveva rubati? Si
sospettava che avesse un amante, e che proprio a lui avesse consegnato i
gioielli sottratti alla contessa. E ora è morta. Ma per mezzo di cosa? Della
pistola caduta dal manicotto di Flora? Lei giura di aver trovato la sua pistola
in casa, e che era calda, come se avesse appena sparato: ma perché? Perché
qualcuno intendeva far ricadere la colpa su quella pistola?
Cheviot capisce ben presto che l’unica fine che i
preziosi possano aver fatto è stata di essere venduti a Volcano, il losco
tenutario di una bisca londinese, frequentata dal bel mondo. Lì Cheviot troverà
parecchia gente: da Flora a Hogben, da Freddie Derbitt a notabili e lord. E
scoprirà come Volcano raggiri la gente: per mezzo di una roulette truccata e
azionata da aria compressa. E in quel momento capirà anche come sia potuto
accadere che la Renfrew potesse essere uccisa da una pallottola invisibile e
che non si fosse né udito rumore di sparo né odore di polvere da sparo: perché
la pallottola era stata sparata da un fucile ad aria compressa. Magari celato
in un bastone da passeggio.
Un’idea ce l’ha Cheviot su chi possa essere
l’assassino, ma così pazzesca che nessuno lo crederebbe. E quindi deve fornire
delle prove e dei ragguagli ai capi della polizia da cui dipende, non solo per
inchiodare l’assassino, ma anche per evitare che proprio lui possa essere accusato
di assassinio o quantomeno di complicità nella morte della nobildonna: infatti una
ragazza, Miss Tremayne, ha visto l’atto di Cheviot di occultare, la pistola
caduta dal manicotto di Flora, in un cofanetto. E così si mette alla ricerca
delle prove, inviando i suoi uomini a perquisire un certo appartamento. E così
alla data e all’ora prefissata, inchioderà l’assassino, dopo aver umiliato il
suo accusatore, il capitano Hogben che, pur di vendicarsi di lui, lo ha
accusato falsamente testimoniando il falso.
Allo scopo dimostrerà che la pallottola che è stata
recuperata con l’autopsia della Renfrew non poteva essere stata sparata dalla
pistola caduta dal manicotto di lady Flora, perché di diametro inferiore alla
canna (sarebbe rotolata fuori) e più piccola di una comune palla adatta a
quell’arma, ma sarebbe potuta essere sparata da un fucile occultato in un
bastone trovato nella camera di…
La rivelazione spiazzerà tutti quelli convenuti lì
davanti ai capi di Scotland Yard: da Hogben a Lady Flora, da Henley a Miss
Tremayne, dal sergente Bulmer all’Ispettore Seagrave. Anche l’assassino, che è
uno di loro.
Cheviot non avrà il tempo per gioire perché Hogben
tentando di fuggire da lui inseguito, si volgerà e farà fuoco uccidendo
Cheviot. Ma in quel preciso momento…ecco che Cheviot ritorna in sé, ritorna
cioè in pieno ventesimo secolo e si accorge di aver sognato: era svenuto a
seguito di un incidente del taxi in cui lui viaggiava ed un’altra auto, avendo
sbattuto la testa contro la maniglia dell’auto.
Starà ancora a chiedersi come è possibile che possa
aver sognato, quando rivedrà il volto di Lady Flora Drayton accanto al suo: è
quello di sua moglie, che si chiama Flora.
Straordinario romanzo storico, mischia suspence,
detection, mistero ed un problema impossibile risolto con consueta nonchalance.
Francamente a me sembra che questo e non tanto “Il Diavolo vestito di velluto”, sia il miglior romanzo storico di
Carr: la penetrazione storica è prodigiosa, la puntigliosità con cui viene
costruita la storia, la realizzazione di figure a tutto tondo mirabili e
credibili. Il tutto in un’epoca, quella di Giorgio IV, descritta
minuziosamente: sembra quasi di vederli i personaggi mentre parlano, ridono,
ballano, giocano, duellano.
Per maggiormente apprezzare l’approfondimento storico
operato da Carr, bisognerebbe avere sotto gli occhi un’edizione originale che
come accade ed è accaduto spesso in passato, non è stata tradotta interamente:
neanche questa volta, anche se a tradurre era Maria Antonietta Francavilla:
mancano infatti le note storiche, riportate a fine libro, che intendevano
rispondere a varie domande del lettore circa il periodo.
Il tempo del romanzo è posto immediatamente a
ridosso della fine della seconda guerra mondiale, quando vi fu una serie di
nebbie tragiche a Londra, tali da provocare decine di incidenti mortali:
durante una di queste, capita l’incidente di auto in cui viene coinvolto
Cheviot.
Il salto indietro nel tempo è un artificio
letterario di cui Carr si è servito altre volte, e che è connesso alla
commistione tra elementi reali e fantastici, all’esperienza onirica e a quella
di vita reale, che legandosi assieme formano un insieme inestricabile da cui è
difficile separare il vero dal falso, il reale dall’irreale. Questa dimensione
era già stata attraversata in altri romanzi famosi: per esempio in The Burning Court, in cui si ritrova una
persona associata a due figure diverse, una nel presente ed una nel passato. Lì
è presente maggiormente la dimensione fantastica, più di qui, anche se nel
presente romanzo, affiora il sospetto che lo stesso Cheviot abbia vissuto
quelle esperienze, e che egli quindi non sia altro che una reincarnazione nel
ventesimo secolo di quel Cheviot vissuto nel diciannovesimo. Ma anche in The Devil in Velvet, vi è un salto
indietro nel passato, scaturito da un patto col diavolo, e quindi anche lì vi
sono elementi fantastici. E anche in Fear
Is the Same , viene percorsa la stessa traccia di immersione nel passato. Possiamo
dire quindi che il salto nel passato, magari in soggetti che si trovano di
botto a vivere esperienze nel passato avendo la coscienza di essere già
vissuti, di aver attraversato gli stessi pericoli e aver conosciuto le stesse
persone, sia uno degli escamotages più tipici di cui si serva Carr per
legittimare una storia di detection nel passato.
Tuttavia al di là della dimensione della detection e
dell’invenzione pura, al loro massimo, Fire, Burn! è un giallo storico di
notevolissima fattura: di tale levatura che a ben donde conquistò nel 1969 il Grand
Prix de Littérature Policière a pari merito con un altro grandissimo
romanzo storico, in cui elementi fantastici non ve ne erano ma abbondava la
ricerca storica: The Daughter of Time,
di Josephine Tey.
Un’ ultima cosa: il titolo italiano ancora una volta
non c’entra nulla col romanzo.
Il titolo in
inglese, Fire, Burn! fa esplicito
riferimento ad una caratteristica dello sesso Cheviot, cioè la sua impetuosità
e temerarietà non mediata dalla ponderazione del rischio. Maine, uno dei due
Commissari di Scotland Yard, colui che alcune pagine prima aveva pubblicamente
accusato proprio Cheviot di essere l’amante segreto di Renfrew e per questo
aveva fato sparire la pistola, nelle ultimissime pagine del romanzo, dopo che
Bulmer ha annunciato la morte di Cheviot ad opera di Hogben e il fatto che lui
lo abbia vendicato uccidendo a sua volta Hogben, rinfaccia a Cheviot il fatto
che l’espressione che egli usava riferendosi a Margaret Renfrew, invece si
adattasse molto di più proprio a lui: Fiamma,
brucia! Bolli, calderone!.
Fire,
Burn! del resto non è altro che la metà di un celebre
verso del Macbeth di Shakespeare (Quarto atto , Scena I), declamato dalle 3 sorelle streghe : Fire, Burn and Cauldron Bubble .
Pietro De Palma
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