giovedì 25 agosto 2016

Kate Wilhelm : L’arte del delitto (Seven Kinds of Death, 1992) – trad. Gioia Selis – Il Giallo Mondadori N° 2732 del 2001

Tanti anni fa scrissi alla redazione del Giallo Mondadori, nella fattispecie all’Editor di allora, Sandrone Dazieri. Per vent’anni non avevo fatto altro che leggere, però avevo una falla da sanare: volevo leggere il più possibile sul sottogenere che mi attirava (e mi attira tutt’ora) di più: Le Camere Chiuse e i Delitti Impossibili. Dazieri mi indirizzò a Igor Longo, “il loro esperto in materia”, mi disse lui. Igor seppe nutrire la mia inguaribile curiosità con accenni, con brevi riferimenti ai temi che condividevamo (bastava che lui mi dicesse una cosa ed io mi procuravo il libro!), persino aprendomi le porte di un suo blog (che non esiste più da molto tempo: un gran peccato!) dove mi invitò a leggere alcuni articoli che aveva scritto per Il Foglio Giallo, una fanzine che aveva pubblicato per la prima volta, qualche racconto sparso di Paul Halter, sconosciuto allora o quasi. In breve costruimmo un’amicizia fatta di lunghe missive, e telefonate, data la distanza che ci separava (lui piemontese, io pugliese). Il merito maggiore che gli riconosco, oltre ad avermi spalancato le porte del sottogenere che più amavo, indicandomi all’inizio gli autori più rappresentativi (ho ancora parecchie missive), è stato quello di avermi incitato a scrivere, a partecipare al Concorso Tedeschi (con un romanzo tutt’ora inedito con 3 Camere Chiuse!) e ad alcune edizioni del Mystfest di Cattolica. Tutto ciò che ideavo, glielo facevo leggere in primis, anzi devo dire che alcune cose gliele ho dedicate personalmente e scritte apposta perché le leggesse (con strampalate Camere Chiuse). Scrissi anche un secondo romanzo, con cui non ho mai partecipato ad alcunché, che qualche anno fa, Luca Conti, dopo aver letto il primo (disse che “con un editing appropriato sarebbe venuta fuori una cosa molto carina”) mi lanciò la proposta di scriverlo a quattro mani cambiando nel soggetto (adattandolo al centenario di Liszt) ma lasciando immutata la messinscena del delitto e il finale: di questo romanzo a Igor era piaciuta molto la Camera Chiusa. Mi aveva detto che era una Camera che lui non aveva trovato mai altrove (l’avevo ideata io, ovvio!) e che poteva paragonarla a certe Camere ideate da Herbert Resnicow o Kate Wilhelm. Ecco la prima volta che sentii parlare di Kate Wilhelm: Resnicow lo conoscevo (Il Grande Gold) ma la Wilhelm proprio no.
Kate Wilhelm è nata ottantasei anni fa in Ohio. Ha scritto molti racconti e romanzi di fantascienza: nel 1965 il suo primo romanzo, The Clone,  fu finalista al Nebula Award; tre anni prima, aveva scritto il suo primo romanzo giallo: More Bitter Than Death, 1962. Ha vinto parecchie volte il Nebula Award nella categoria “Short Story” e una volta, nel 1977,  l’Hugo per il miglior romanzo di fantascienza: Where Late the Sweet Birds Sang (l’anno prima era stata finalista con lo stesso romanzo al Nebula Award). Ha scritto parecchi romanzi mystery e thriller psicologici, e in particolare ha creato due serie fisse, quella di Barbara Holloway (detective fiction) e quella basata sulla coppia Charlie Meiklejohn e Constance Leidl (mystery classici con delitti impossibili). Dopo la morte del suo secondo marito, il noto scrittore di racconti di fantascienza, Damon Knight, avvenuta nel 2002, attualmente vive in Oregon.
La sua produzione di romanzi e racconti, comprende:
Constance & Charlie: Omicidio in tre atti (The Hamlet Trap, 1987)
La porta oscura (The Dark Door, 1988), pubblicato da Mondadori nel 1990 nella collana Urania
La casa che uccide (Smart House) (1989)
Constance & Charlie: dolce veleno (Sweet, Sweet Poison, 1990)
L’arte del delitto (Seven Kinds of Death, 1992)
A Flush of Shadows (1995)
The Casebook of Constance and Charlie (1999).
Charlie Meiklejohn e Constance Leidl sono una coppia nella vita e nel lavoro: infatti gestiscono un’agenzia investigativa ben avviata.
Constance è amica di Marion Olsen, Tootles per gli amici, un’artista che ha raccolto attorno a sé, in una piccola fattoria, un gruppo di giovani promettenti: pittori, scultori, etc..
Tootles le chiede aiuto perché deve inaugurare una mostra di opere, una sua rassegna personale, in cui la parte più importante l’ha Seven Kids of Death, l’opera che l’ha lanciata nel mondo dell’arte, ma intorno a cui lei ha costruito un suo percorso personale di arte contemporanea. La “personale” è stata sponsorizzata da Max Buell suo secondo marito e noto costruttore edile, che intende lanciare definitivamente Tootles ma nel tempo stesso sponsorizzare un complesso condominiale ultramoderno che ha edificato nel frattempo, poco distante dal luogo dove è previsto il ricevimento che deve ufficialmente lanciare il progetto; al condominio hanno lavorato oltre che Max, anche suo figlio Johnny, desideroso di mettersi in luce presso il padre e riuscire quindi a convincerlo a lasciare a lui l’impresa, e Thomas Ditmar, capo cantiere e braccio destro di Max Buell da quasi trent’anni.
Alla manifestazione sono stati invitati molti diversi personaggi: la risonanza dell’evento è alta, e fra gli invitati c’è la creme dell’ambiente. Vi sono anche personaggi della finanza e dell’imprenditoria, perché il villaggio ultramoderno, costruito non lesinando soldi e tecnologie all’avanguardia, è destinato ad accogliere artisti ma non solo.
Fra gli invitati arriva anche Paul Volte noto critico d’arte e la sua ex Victoria Leeds, editor newyorkese che, a sua volta, avendo conosciuto Toni, giovanissima scultrice, l’ha introdotta nel gruppo di artisti che fa capo a Tootles.
Al momento dell’inaugurazione, tuttavia, proprio Victoria Leeds scompare. Si mettono molti alla sua ricerca, ma invano. Battendo vari luoghi, esaminano dapprima il fienile, dove sono state accatastate le casse contenenti le opere che devono partecipare alla mostra: sospettando che in una possa essere stato celato il corpo dell’amica di Paul, sempre che sia stata uccisa o comunque messa fuori gioco, le aprono una ad una e rinvengono le varie opere o imbrattate di vernice o rotte o comunque lesionate gravemente, tale da non poter essere più esposte: perché sono state chiuse addirittura nelle casse d’imballaggio, quando per una persona che si sospetta si sia dovuta assentare furtivamente dalla festa per compiere il misfatto, sarebbe stato necessario non perdere tempo per evitare di essere sorpresa? Perché chiudere le casse, quando sarebbe bastato aprire le casse e distruggere o rovinare per sempre i capolavori di Tootles? E perché alcune opere sono state lesionate e altre no?
Fatto sta che qualcuno comincia a sospettare che la persona scomparsa, sia quella che abbia intenzionalmente voluto distruggere la fama di Tootles: ma perché Victoria Leeds, critico e amica di Tootles avrebbe dovuto compiere un’azione tanto meschina? Ma, sempre non tralasciando nulla, si sente la necessità di andare a perquisire il complesso condominiale, ancora disabitato, in cui andranno ad abitare sia Tootles che suo marito: pur essendo virtualmente impossibile, perché l’appartamento, come tutti gli altri del villaggio, è protetto da sistemi di sorveglianza elettronici di ultima generazione, trovano  Victoria Leeds strangolata.
L’ora della morte è presumibile, ma neanche tanto, visto che l’aria condizionata, presente nell’appartamento è così inferiore a 18° da far rabbrividire dal freddo chi vi si avventura dentro. Visti gli spostamenti delle persone interessate, sarebbe proprio l’organizzatrice della mostra peronale, Tootles, la maggiore sospettata, in quanto si ipotizza che, avendo trovato Victoria Leeds
intenta a rovinare per sempre i suoi capolavori, avrebbe potuto ucciderla: ma perché proprio nel suo appartamento e non invece nel fienile, dove sarebbe stato più comodo e più pratico? Perché correre il rischio di essere scoperta, portando il corpo ? E se invece la vittima vi fosse andata di persona, vi è stata costretta oppure no?
Lo sceriffo della contea è perplesso, e non vuole arrestare Tootles senza prove, e così è contento quando apprende che Constance e Charlie sono stati assunti da Max per trovare il vero colpevole e scagionare la sospettata principale. Ben presto si riesce a capire, come apparentemente in modo impossibile, la vittima si trovasse lì: il fatto è che le porte sono accessibili solo mediante ascensori esclusivi per ciascun appartamento e usabili con chiavi elettroniche; quindi, escludendo che la vittima vi si fosse recata personalmente e fosse riuscita ad accedere da sola, è chiaro che qualcun altro l’avesse fatta entrare. Il fatto è che, monitorando i tempi, parrebbe che nessuno avrebbe potuto farlo, perché all’ora in cui si ritiene sia stata uccisa, nessuno parrebbe essere stato lontano dal ricevimento, tranne il figlio di Max, Johnny, che era lì assieme ad alcune sue amiche, le quali però giurano che nell’appartamento non vi fosse nessun cadavere. E poi da lì è andato via con loro, e il suo alibi è stato confermato. Quindi dev’essere stato qualcun altro. Ma nulla si trova. Tanto più, ci sarebbe anche il custode dello stabile che nega di aver visto qualcuno avvicinarsi al complesso. In sostanzam le possibilità che qualcuno possa avere ucciso Victoria Leeds in quell’appartamento, sembrano inesistenti.
Ben presto altre indagini si intersecano a questa: quella di uno strano incidente dell’architetto Muscleman, uno dei professionisti che erano stati incaricati di approntare il progetto del complesso abitativo, sfracellatosi al suolo cadendo dal terrazzo di uno degli stabili del complesso condominiale. Pare che lui avesse preso contatto, alcuni giorni prima della sua morte, proprio con Victoria Leeds. C’è un filo comune che unisce le due morti?
A queste 2 piste, si unisce un’altra ancora che ha per fine quello di separare il danneggiamento delle opere dalla morte di Victoria: e se queste fossero state danneggiate da altra persona? E in più vi è ancora un altro motivo di confusione: sia Marion che sua sorella Beatrice (Ba Ba) sono fissate di spiritismo, e in particolare Marion sostiene di aver avuto un dono, quello dell’arte in cambio del dolore che avrebbe causato a chi si fosse unito a lei: così le sue disavventure amorose. Pare che giustifichino questo strano patto “diabolico”. Il fatto è che Paul Volte si convince di aver ricevuto anche lui questo dono, e che il prezzo sia stato la morte di Victoria. Constance e Charlie devono quindi dimostrare che non sia lui il responsabile della morte della sua ex e che sia qualcun altro. Innanzitutto dimostreranno chi abbia danneggiato le opere e perché, chi sia stato ad uccidere Victoria, e che non sia la stessa persona. E che non c’entrano né Paul che Victoria.
Non si tratta evidentemente di una Camera Chiusa propriamente detta, perché manca il presupposto della chiusura dell’appartamento o dell’impossibilità che l’assassino sia potuto fuggire: infatti la testimonianza del custode non è detto che sia definitiva. Invece direi che si tratti di Delitto Impossibile: mancherebbero le condizioni per cui possa essere stato messo in atto.
La soluzione non è però relativa ad uno spostamento dei tempi (come in Hag’s Nook di John Dickson Carr o in Evil under the Sun di Agatha Christie, che vede l’inganno dell’assassino o della vittima), ma piuttosto può ricercarsi nello spostamento dei luoghi: come? A me pare molto simile la soluzione, se non addirittura derivata, rispetto a quella ideata da John Sladek in By Unknown Hand, il racconto con cui Sladek si affermò ad un importante concorso letterario inglese nella cui giuria sedeva nientepopodimeno che la stessa Agatha Christie: un detective (quindi un testimone oculare) vede la vittima entrare in una camera d’albergo, mentre lui è seduto nel corridoio di fronte alla porta (deve sorvegliare perché nulla possa accadere al padrone di casa); poi, quando irrompe in essa, trova la vittima strangolata, senza che l’assassino possa essere uscito da qualche parte. La grandezza di quell’opera, da noi completamente sconosciuta, sta nella sua sconcertante semplicità di messinscena, come del resto accade nell’opera della Wilhelm.. Entrambe le opere hanno una sola debolezza, che poi è l’unico indizio capace di indirizzare il genio deduttivo nella direzione esatta: nel racconto di Sladek, è una poltroncina arancione, su cui il testimone era seduto, che poi scompare; nel romanzo della Wilhelm, è un enorme mazzo di rose, che sarebbe dovuto essere trovato nell’ascensore privato dell’appartamento, dove era stato messo in bella vista lì, la stessa mattina, e che invece risulta essere scomparso, senza che nessuno possa averlo nel frattempo potuto toglierlo, visto che le chiavi elettroniche sono pochissime ed in mano di persone che hanno alibi di ferro. In sostanza l’apparizione di un corpo e la sparizione di un oggetto.
Per il resto, il ritmo del romanzo è lento nell’incedere almeno all’inizio, con argomenti che alla lunga, risultano poco in connessione diretta col delitto e pertanto appesantiscono inutilmente il plot, che risulta troppo complesso.  Poi, man mano che l’indagine procede, acquista ritmo, ma sempre piuttosto relativo, in rapporto soprattutto alle multiformi personalità dei personaggi, che non sempre hanno attinenza con il fatto in sè per sè. Di rimando, esse sono ben delineate e pertanto possiamo dire trattarsi di un mystery con movenze psicologiche, non eccessive, che risulta molto simile al racconto di Sladek: chi lo conosce, forse può capire dove io voglia andare a parare, chi non l’ha letto, dovrà invece procurarsi il libro della Wilhelm per capire cosa io voglia dire.
L’ambientazione iper-tecnologica distoglie però l’attenzione del lettore e non lo fa riflettere sulla possibile facilità di risoluzione: se da un lato, questo causa la sorpresa per la soluzione, essa risulta però come se cadesse dal cielo, senza che il lettore sia riuscito a collegare da solo i fatti, seguendo un filo logico ben definito.

Pietro De Palma

domenica 21 agosto 2016

Augusto De Angelis : L’Albergo delle tre rose, 1935 – La Memoria N° 539, Sellerio Editore, 2010

Il più famoso autore poliziesco italiano dell’epoca fascista è Augusto De Angelis, l’unico i cui romanzi abbiano superato l’esame dei tempi, e che siano ancor oggi riproposti con successo, dopo la riscoperta anche mediata da due fortunate serie televisive nei primi anni ’70 della RAI in cui la parte del Commissario De Vincenzi fu affidato a Paolo Stoppa.

Il romanzo più famoso di De Angelis è senza dubbio “L’Albergo delle tre rose”, che è il suo capolavoro. Non è solo un romanzo poliziesco di prim’ordine, con false piste, indizi, personaggi estremamente sfaccettati e a tutto tondo, ma che ha una suspence crescente, un ritmo non indifferente e misteri a go-go. Ha anche un’atmosfera claustrofobica, in quanto è ambientato in un piccolo albergo, nell’arco di una notte, e propone per di più anche un mistero della Camera Chiusa, con una interessantissima variazione.
De Vincenzi, che è più giovane del suo Vice Commissario Sani (ma nello sceneggiato omonimo è più anziano in quanto interpretato da Paolo Stoppa), ma è da lui rispettato e stimato per via della sua non comune genialità, appena entrato in Questura, trova la posta e tra le varie lettere, una accende il suo interesse: è una lettera anonima che annuncia che qualcosa di sinistro sta accadendo all’Albergo delle tre rose, un albergo di terz’ordine, più pensionato che altro, dotato di sala ristorante. La frase molto d’effetto che richiama la sua attenzione parla del “Diavolo che sghignazza dietro ogni porta”. Colpito dalla lettera, quasi subito viene chiamato dal Commissario Bianchi, un suo amico, e viene informato che all’Albergo delle tre rose è avvenuto un delitto.

Arrivati sul posto, notano un certo trambusto. Siccome è sera, nel ristorante la sala è piena: oltre agli occasionali clienti, vi sono quelli che giocano a scopone, e poi i clienti fissi della pensione. I poliziotti vengono informati che al terzo piano, Bardi, un gobbo che abita nella pensione, ha trovato impiccato il giovane Douglas Layng. Sembra che sia stato messo per impressionare o Carlo Da Como, un tale che nato ricco ha dissipato tutte le sue ricchezze vivendo in maniera dissoluta, o un tedesco, Vilfredo Engel, amico di Da Como: si pensa che possa essere un avvertimento per uno di loro, perché per andare alle loro due camere bisogna obbligatoriamente passare per dove è stato impiccato il giovane.

Il giovane comunque pare appeso, non impiccato. Fatto sta che la Guardia Medica chiamata lì per lì, non può dire di più di quel che vede perché la luce è davvero fioca, ma alla luce di una lampadina di forte luminosità recuperata dabbasso, tolti i vestiti, si accorgono che il giovane è stato pugnalato. Gli abiti però non sono lacerati, segno che dopo essere stato denudato e pulito dal sangue, è stato rivestito, e poi appeso. Una orribile messinscena: perché? Portato il cadavere all’istituto di Medicina Legale fanno un’altra scoperta: il cadavere presenta la flaccidità secondaria, che si manifesta dopo la rigidità cadaverica. Ma, da quanto tempo è morto?  Quello che ancora non si capisce è come sia stato mutato il rigor mortis: si pensa ad una stufa, ma non se ne ritrova traccia.
Parecchie sono le persone sospette. Innanzitutto quelli che stanno sul piano dove è stato trovato l’impiccato, tra i quali spicca Engel, il quale dimostra di aver paura di qualcosa, oltre a possedere una cosa strana per un uomo: una bambola. La cosa ancor più strana è che anche Layng possedeva una bambola, come pure una svedese diciannovenne, tale Karin Nolan. Tre bambole uguali, in possesso di tre persone diverse. E’ chiaro che debba esserci un legame. E siccome per di più uno dei tre possessori è stato ucciso, De Vincenzi sospetta che l’assassino voglia ancora uccidere. E ucciderà ancora. Ma prima sarà trovato un foglietto in cui, a firma di un certo Julius Lassinger, si promettono in pratica altre morti, perché il giovane appeso è stato il primo di una serie.
Moriranno Giorgio Navarreno, un levantino di nazionalità cipriota, che sbarca il lunario facendo il chiromante e vendendo chincaglierie varie, che sapeva qualcosa e ha cercato di ricattare l'assassino; 
e l'italo-americano Nicola Al Righetti, per sua stessa confessione passato per parecchie città straniere, ultima delle quali New York. De Vincenzi sospetta, ma non ha prove che lo sia effettivamente, che sia un gangster americano. E Karin Nolan, pugnalata con un paio di forbici, si salverà solo per la prontezza di De Vincenzi.  
Chi è l’assassino?
De Vincenzi lo scoprirà non prima che la lettura del testamento avrà fornito gli ultimi tasselli perché il colpevole, pazzo, venga affidato alle cure di un manicomio criminale.
Tantissimi altri personaggi: Besesti, il ricco industriale;  i coniugi inglesi Flemington; l'attricetta Stella Essington; la bella Mary Alton, vedova del Maggiore Alton, dell'esercito inglese. E poi una vicenda oscura, terribile, accaduta durante la Guerra Boera, in cui c'entrano un Lessinger, il defunto Maggiore Alton, e altro militare, fratello di Vilfredo Engel, in cui erano morte Lessinger e le sue 3 figlie, mangiate dai coccodrilli; e tanto oro.
L’Albergo delle tre rose è uno dei più bei romanzi di narrativa poliziesca italiano del ‘900: innanzitutto è scritto benissimo, con descrizioni a tutto tondo dei personaggi (molto diversamente dalla normalità dei romanzi di quel periodo anche stranieri, in cui o i personaggi sono molto bene tratteggiati e il plot non è niente di speciale o è il contrario, fatto salvo quanto accade solo nel caso di grandi nomi della letteratura poliziesca in cui entrambi i caratteri sono presenti) tale da fissarli bene nella mente; gli stessi caratteri psicologici sono estremamente decisi, e assieme a quelli fisici, realizzano compiutamente un determinato soggetto; la storia è avvincente, e utilizza un espediente che deriva direttamente da Conan Doyle (La valle della paura): un qualcosa accaduto nel passato che è alla base della tragedia che accade nel presente;
sono presenti molte false piste, che distraggono il lettore e lo portano a considerare delle strade impossibili da seguire, mentre invece la storia è molto semplice, e anche il movente vero lo è; vi è una Camera Chiusa molto interessante: la finestra è aperta, e quindi apparentemente non vi è motivo perchè un mistero della Camera Chiusa possa esistere. Tuttavia proprio le circostanze e l'impossibilità dellla fuga (si è ad una certa distanza da terra, e anche un ginnasta cadendo si fratturerebbe qualcosa) creano il problema; peraltro la finestra si affaccia su uno spazio chiuso (nello sceneggiato RAI curiosamente invece il cortile aveva una uscita posteriore): non vi è la distesa di neve, ma un giardino interno completamente bagnato di pioggia, tale che l’assassino dovrebbe lasciare delle orme umide, ed invece non le lascia, e si comporta in maniera strana, non come si comporterebbe chi non vuole essere visto). Noto peraltro che De Angelis, che è interessato al mistero in se stesso e non alla particolarità della camera Chiusa, non vi fa caso: si manifesta qui, quindi, uno dei rari casi in cui, pur essendoci una impossibilità manifesta, essa non viene conteggiata.
Vi  sono anche continue messinscene: le bambole che appaiono; il cadavere pugnalato, poi denudato, rivestito in maniera tale che non si veda il sangue, e impiccato; il tentativo di eliminare il rigor mortis; l’apparizione della vera madre della vittima; due diversi testamenti; e infine anche un matrimonio di cui non si sapeva nulla. Quest’ultimo escamotage è tipico nei romanzieri inglesi (per es. in Agatha Christie).
In De Angelis si nota tuttavia una estremizzazione delle storie e dei caratteri che sono molto forti: non ci sono soggetti deboli, ma tutti potrebbero essere l’assassino, o comunque tutti hanno nascosto qualcosa che poi unito al resto, forma il puzzle ricomposto. Persino, Bardi, il gobbo, che dà inizio a tutta la storia con la lettera anonima, è un personaggio forte: siccome si sente una vittima del sistema per via della sua diversità morfologica, odia più degli altri, anche se ha sentimenti di protezione nei confronti di gente che lui considera debole come lui. Ed è proprio perché vuole salvare una di queste persone, che avvisa il Commissario di qualcosa di imminente che secondo lui sta per verificarsi in quella casa. Solo che nella sua lettera anonima c’è un equivoco che gioca a favore degli eventi. Lui si muove per salvare un’innocente, ma non sa che quella minaccia fa parte di una macchinazione ben più grande.
Al di là di ciò, il giudizio critico non può che appuntarsi anche su altre cose.
Lo spirito con cui è scritto risente della xenofobia strisciante contro gli stranieri (il popolo italico era perfetto, gli altri no: in questo, la propaganda fascista e nazista eran uguali), ma è purtuttavia un dato che doveva esserci altrimenti la censura fascista non avrebbe mai autorizzato la pubblicazione del romanzo. Per il resto, il romanzo narra di tre delitti avvenuti in un albergo (più un quarto presunto, più un tentativo di omicidio), in cui però parecchi clienti dimorano stabilmente. Più che albergo potremmo definirlo quindi “un pensionato”, con sala ristorante.  Questo è un particolare molto importante che raccomando:  infatti, anni dopo Steeman scriverà L’assassin habite au 21, romanzo che si svolge in un pensionato. Direi che Steeman potrebbe aver letto benissimo il romanzo di De Angelis, in quanto in quei tempi, De Angelis era il romanziere di polizieschi più famoso in Italia. Se nel plot Steeman deve qualcosa ad Agatha Christie, per quanto riguarda il luogo del dramma egli sicuramente ripropone quanto già scritto da De Angelis.  Rispetto a Steeman e a Ten Little Niggers della Christie, il romanzo di De Angelis possiede però un’atmosfera estremamente claustrofobica, che accentua spasmodicamente la tensione.
Per certi versi è molto vicino a The Greene Murder Case di S.S. Van Dine o The Tragedy of Y di Ellery Queen.  Inoltre, per il particolare che due dei tre delitti, tra cui una presunta Camera Chiusa, avvengono in circostanze impossibili o quasi, in un albergo presidiato dalla polizia, potrebbe esser stato tributario di Vindry, che in alcuni suoi romanzi (per es. Le Piège aux diamants e  La Bête hurlante, scritti il primo un anno e il secondo due anni prima) fà presidiare la casa dalla polizia.

Pietro De Palma


giovedì 18 agosto 2016

George Meirs: Il cadavere assassino (Le Cadavre assassin, 1912) – trad. Pio Piucco – I Nuovi Sonzogno n.61 del 1968




George Meirs è un autore oggi dimenticato. Fà parte di quella schiera di autori, direttamente influenzati da Conan Doyle, come Leblanc o Shiel.
Mi ricordo quando me ne parlò Igor Longo molti anni fa: mi sollecitò a procacciarmi tutti quelli che avrei potuto trovare giacchè al tempo era possibile ancora trovarli (ora è difficilissimo). Dato che le edizioni italiane originali, a patto di trovarle, sarebbero costate troppo, mi disse che era facile trovare le ristampe (editore Sonzogno) della fine degli anni ’60 perché mi sarebbe bastato vedere le copertine, tutte firmate da un giovane Crepax.
Il filone è quello del cosiddetto Giallo realista, ma i connotati francesi lo distinguono da altri romanzi del periodo (inizi del ‘900): innanzitutto ha caratteristiche avventurose, che lo avvicinano a molti altri romanzieri del periodo (Leblanc, Sauvestre, Leroux); poi vi è la tendenza a presentare un eroe che è il protagonista di tutte le avventure ( o quasi); e infine vi è il sensazionalismo tipico dei romanzi del periodo, che si ammanta di mistero, in castelli stregati, delitti soprannaturali, gioielli maledetti. Per di più Meirs ha una porzione di rilievo nel sottogenere delle Camere Chiuse e dei Delitti Impossibili in quanto è uno dei massimi esponenti, prima di Chesterton.
Ma chi fu George Meirs?
Fu uno dei tanti pseudonimi (A.M., Asmodé Dayle, Héma, Adrien Méria, Jean Mires, William Thook, Weal) di Adrien Jean Remy Machaux. Nacque il 21 maggio 1878 in Francia. Dopo gli studi alla scuola di Belle Arti di Parigi, diventò disegnatore. Questa sua caratterizzazione lo accomuna  ad altri grandi romanzieri francofoni, primo fra tutti Stanislas-André Steeman, che prima di esplorare la letteratura di genere, furono disegnatori.
Con lo pseudonimo di Adrien Meria, lavorò per Le Rire, La Fin de Siècle, Frou-Frou e L’Assiette au Beurre. Ma soprattutto fondò una rivista satirica, che diventò molto famosa: La Gifle.
Nel 1911 George Meirs cominciò, per l’editore Albert Mericant, la serie delle famose avventure del detective inglese William Tharps. I primi libri, con copertine firmate da lui, furono scritti in collaborazione con J.M. Darros, alias Edmond Fricot: L’Enigme du train 13, 1912, (L’enigma del treno n. 13, 1914); La Carte sanglante, 1912 (La carta insanguinata, 1914); Le Cadavre assassin, 1912 (Il cadavere assassino, 1914).

“William Tharps, il celebre poliziotto inglese” (come intitolerà le sue avventure la più importante collana di romanzi polizieschi prima dell’avvento di Mondadori, cioè “I Romanzi Polizieschi” di Sonzogno, che presenterà a partire dal 1914, su un totale di 31 uscite, ben 24 di Meirs) è un emulo di Sherlock Holmes, un suo clone. Logico, esteta, Tharps è un laureato in Medicina (guarda caso come il Professor Bell, modello per Holmes, di cui si professa ex-allievo). Anche lui ha il suo Watson, l’avvocato Pastor Lynham; e come Holmes ha un nemico implacabile, Ludovic Marmont. Se il mistero e la caratterizzazione sensazionalistica sono una caratteristica comune, anche lo spionaggio è esplorato accuratamente nelle avventure di Tharps. Dopo 22 romanzi, Meirs abbandonò William Tharps per un eroe piu giovane, Walter Clark, che però fu protagonista di pochi di essi.
Durante la guerra, George Meirs scrisse per Tallandier la Novelization di  Les Vampires, diretta dal regista Louis Feuillade, che raccontava  la lotta tra il giornalista Guerande e una misteriosa banda di criminali i cui capi si chiamavano : Le Grand Vampire, Venenos, Irma Vep, Satanas.
L’ultima sua opera, un romanzo scandalo sulla vita parlamentare, Monsieur le depute et sa maıtresse, risale al 1924.
Da allora, fino alla morte, avvenuta nel 1962 a Reims, molto malato, non scrisse più nulla.
Il primo romanzo, scritto a quattro mani assieme a J.M. Darros, fu Le Cadavre assassin, 1912.

E’ l’esordio di Tharps, che ruffianescamente viene presentato come il più diretto e accreditato erede di Sherlock Holmes, in quanto ex allievo di quel professor Bell che aveva fornito il modello a Conan Doyle per il suo celeberrimo detective. Infatti nelle prime pagine Tharps è depresso per la morte del suo ex professore di medicina. Dal suo stato dichiara che “solo un bel delitto” potrebbe tirarlo su. La professione sulla bellezza dei delitti creati ad arte, è un po’ un leit-motiv, che ritroveremo espresso in Pierre Boileau, che erediterà parecchio da Meirs, ma che deriva la sua “professione di fede” direttamente dall’estetica del delitto trattata in “L’assassinio come una delle belle arti” di Thomas De Quincey.
E un bel delitto gli capita tra le mani, quando il suo Watson, l’avvocato Pastor Lynham, vede il titolo di un giornale, che narra di un misterioso omicidio avvenuto a Netley, una piccola città nei pressi di Southampton: il defunto Duca di Willingham,  in attesa di essere seppellito, che era vegliato da prete e chierichetto, in una chiesa chiusa e sbarrata dall’interno, avrebbe assassinato il prete, pugnalandolo. La bizzarria della circostanza è che la chiesa era stata sbarrata con catene e catenacci dall’interno dal sagrestano, persona della massima fiducia, che era rimasto in sagrestia, mentre in chiesa vegliavano il defunto prete e chierichetto. Il sagrestano, interrogato più in là dallo stesso Tharps, rivelerà alcuni particolari sconcertanti che avevano anticipato il delitto: la caduta di un cero ai piedi del morto, il sudario che si era alzato davanti agli occhi dei terrorizzati astanti, ed una corrente che aveva invaso la chiesa. E, dopo il delitto, il fatto che al prete fosse stato mozzato anche l’anulare della mano destra, per sottrargli un anello. Questo particolare però coinciderebbe con l’uscita del sagrestano dalla chiesa, che ha la cura di chiudere dietro di sé il portale e di sollecitare l’intervento di alcune persone che transitano vicino alla chiesa, le quali irrompono in chiesa armate, decise a trovare l’assassino. Ma non trovano nessuno. A questo punto, quella che si fa largo è l’ipotesi soprannaturale. Da cui prende le distanze Tharps, che comincia ad indagare.
Innanzitutto, munito di una grossa lente, aiutato dal suo assistente che solleva la testa gelida del morto, esamina la parte della bara sottostante il corpo, scoprendo dei frammenti di capelli cortissimi neri. E poi delle impronte di fango sul sudario. Da tener presente è che la presenza di questi indizi è inspiegabile: non piove da parecchi giorni e non c’è fango nelle strade; eppure lì vi è del fango. Da dove è stato portato?
Dalle prime indagini di Tharps non emerge nulla che possa contraddire le tre sole ipotesi sulla morte del prete:
egli è stato assassinato da un cadavere che ha ripreso momentaneamente vita, riaddormentandosi successivamente nel sonno della morte; oppure è stato assassinato dal sagrestano, tale Southam, che avrebbe intimato al chierichetto di non parlare pena…; oppure è stato assassinato da altra persona, che però avrebbe dovuto trovare la forza di penetrare in quel luogo, attraversando le mura o il portale, e non potendo assolutamente accedere dalla torre campanaria, a motivo della conformazione della chiesa. Cosa che non può essere vera. E allora ? L’Ispettore Gregger sospetta del sagrestano, poiché a norma di logica non vi può essere altro responsabile; inoltre la diceria popolare vuole che la moglie del sagrestano fosse l’amante del prete. Movente è la gelosia? O/e la cupidigia ( perché alla morte una parte dei beni del prete sarebbero passati alla donna)?
Tharps è dubbioso. Ospitati sia lui che Linham da un amico di Tharps, il banchiere Elijah Callon, vengono a sapere che proprio lui era diventato intimo conoscente del vecchio duca Orazio Jesson, grazie a consigli disinteressati che avevano fruttato al vecchio duca dei guadagni di denaro per degli investimenti oculati; e di come il vecchio duca, sentendosi prossimo a morte, avesse disposto che nello studio del suo notaio di fiducia, oltre ad essere lette altre disposizioni testamentarie, fosse consegnato al suo amico un plico che sarebbe dovuto essere letto solo dopo che lui fosse morto: il vecchio duca confessava di avere commesso qualcosa di riprovevole. Inoltre si viene a sapere che nella dimora ducale c’era in una stanza un pannello segreto che si apriva grazie al pomolo dell’elsa di un pugnale antico, tramandato nell’ambito della famiglia, che in una apertura dissimulata nel pannello sarebbe dovuta essere usata a mò di chiave.
Il pugnale non può essere usato a questo scopo perchè è con esso che il prete è stato assassinato e quindi si trova nelle mani della polizia, e quindi Tharps mediante della cera molle, produce un calco da cui si fa forgiare una specie di chiave che gli permette di aprire uno scomparto segreto, nel quale tuttavia non trovano nulla di quanto aveva detto il vecchio duca.
Lo scomparto dev’essere stato aperto prima di loro da altri. Magari da chi tempo prima, durante la notte, aveva terrorizzato a tal punto il vecchio da farlo rimbambire e successivamente dal provocargli la morte. In quell’occasione nulla era stato rubato di valore tranne dei ninnoli, tanto da far accreditare che la rapina era da escludersi.
Gregger è pronto ad arrestare il sagrestano, mentre Tharps fa di tutto per salvarlo non credendolo colpevole. A Tharps che sospetta di una persona in particolare, si accende la lampadina quando viene a sapere: prima che il prete prima di spirare aveva invocato La Madonna e che “lui l’aveva ucciso”, e soprattutto quando apprende che la chiesa prima di diventare luogo di culto cittadino, era stata la vecchia cappella del castello avito che il duca aveva deciso di far distruggere.
Un tentativo di far andare via Tharps e il successivo suo tentato omicidio, fanno capire al poliziotto dilettante che qualcuno lo teme e a tal punto da tentare di sparargli: il bossolo della pallottola, una calibro 6 in forza all’esercito, viene ritrovato. E’ anche questo che indirizza le indagini del poliziotto verso un’unica direzione, suffragata da altri rinvenimenti e scoperte, che apparirà tanto più sconvolgente quanto vera, soprattutto alla luce dell’assassinio del prete (perché proprio lui?) e al ritorno di un erede di cui nessuno sa (di cui non sapeva nulla neanche il vecchio duca alla sua morte)..

Dopo aver arrestato il colpevole, Tharps ricostruirà tutta la vicenda e anche la dinamica incredibile dell’omicidio.
Bellissimo romanzo di altri tempi, mischia sapientemente anche se ingenuamente, feuelliton, amori traditi, figli rinnegati, un erede che ritorna, un prete che muore inspiegabilmente, una eredità consistente, passaggi segreti, un castello vero ed uno distrutto, una vecchia cappella del castello distrutto, un padiglione delle guardie nel quale si vedono strane luci, apparizioni spettrali, etc..
Il tutto condito da un’atmosfera e una tensione che fa leggere il romanzo con passione, nonostante lo stile sia quello di un libro scritto nel 1912 e tradotto per la pubblicazione in Italia nel 1914, con frequenti arcaismi della lingua italiana (ebbimo, poscia, uso a, spoppato, e molti altri ancora) che rallentano notevolmente un ritmo che tuttavia resta alto. Anche se il colpevole, al lettore smaliziato, che avesse letto altri romanzi francesi, soprattutto uno in particolare, e quello di un grande scrittore di fine secolo, salta agli occhi ben prima che egli venga acciuffato, durante un tentati vo di effrazione nello studio del notaio del vecchio duca.
Tanti i leit motiv di questo romanzo, ereditati da altri autori, ma che verranno raccolti anche da altri dopo di lui: travestimenti e identità doppie; il tema della maledizione – qui, commessa grazie ad un pugnale maledetto – che colpisce gli appartenenti ad una famiglia (tema che verrà raccolto da Carr e da Derek Smith per esempio); il tema del ritorno dell’erede (presente in gran parte dei migliori romanzieri anglosassoni); i passaggi segreti e i vani nascosti (una caratteristica ad esempio di Leblanc); il tema dell’assassinio compiuto quasi come opera d’arte (ritornerà in Boileau), non da parte di un volgare delinquente ma di un sublime omicida; il fatto che il cadavere possa a sua volta uccidere oppure il suo fantasma apparire (Boileau da solo e con Narcejac, Duvic, ma anche Talbot) ; la sparizione di un dito (Steeman).
La soluzione della Camera Chiusa, nonostante avvenga grazie ad un passaggio segreto (escamotage che denuncia la vetustà del romanzo e che nel prosieguo degli anni verrà del tutto abbandonato, anche se qualcosa si ritrova ancora in Herbert Brean, amico di Carr, e prima ancora in Connington), è tuttavia spettacolare, perché viene confermato il fatto incredibile che l’omicida si è alzato dalla bara e che voleva uccidere proprio il prete, anche per rubargli l’anello di oro massiccio che portava al dito anulare, nonostante il duca fosse già morto..stecchito.

Pietro De Palma

lunedì 15 agosto 2016

Charles Daly King : Un alibi di troppo (Arrogant Alibi, 1938) – trad. M. Boncompagni – I Classici del Giallo Mondadori N°690 del 1993

Nato nel 1895 a New York, Charles Daly King si laureò in psicologia, dopo aver militato come ufficiale durante la Prima Guerra Mondiale. Divenne uno dei maggiori seguaci di Gurdjieff, interessandosi del sonno e delle sue componenti, sin dalla sua tesi di laurea, pubblicando saggi di psicologia di forte spessore, tra cui Beyond Behaviorism (1927) e The Psychology of Consciousness (1932). Dopo la guerra riprese a occuparsi di psicologia
A partire dal 1932, scrisse sette romanzi, di cui sei pubblicati che costituiscono il lascito di scuola vandiniana forse più di più alta espressione. Ricordiamo che a Van Dine si rifecero una serie di autori che in massima parte utilizzarono lo stile più tipicamente vandiniano per il loro esordio da romanzieri: Rex Stout, Ellery Queen, Clayde Clason, Anthony Abbot, Stuart Palmer e appunto Charles Daly King.
Un alibi di troppo è contraddistinto, come tutti gli altri cinque romanzi (ma dovremmo dire sei, perché si sa per certi che Daly King ne ultimò un settimo che era in attesa di essere pubblicato dopo la Seconda Guerr Mondiale, ma che non lo fu più, a testimonianza che dopo la guerra cambiarono le aspettative degli editori) da atmosfere gravide di sospetti, e da un plot come al solito complicatissimo: qui Michael Lord (tenente di polizia, promosso Ispettore, dopo Obelists Fly High), sempre accompagnato dallo psicologo Rees Pons, è invitato ad Hartford, a casa della ricchissima Victoria Timothy moglie di un egittologo (per meglio dire, predatore di tombe) che ha portato con sé in America una parte cospicua delle cose da lui trafugate in Egitto, costituendo in un ambiente annesso alla sua casa, un dotatissimo museo: Perkette.
Quella sera ci sarà un ricevimento, durante il quale sono previsti degli intrattenimenti musicali, e al quale parteciperanno Grant Worcester amico di Lord (è lui che lo ha invitato) e sua moglie Garde; Charmion Dannish, amica del Dottor Earley, giovane protetto della ricca vedova, che canterà, e lo stesso Earley che dovrebbe suonare qualcosa; l’avvocato Gilbert Russell, legale della vedova; e anche due egittologi, Ebenezer Quincey ed Elisha Springer. Tuttavia a metà serata, durante l’intervallo, Charmion avendo un po’ di mal di gola e ricordandosi che nel bagno vicino alla camera da letto della padrona di casa, al primo piano, c’è un tubetto di aspirine, vi si reca. Prende l’aspirina, fa anche qualche gargarismo, poi sente qualcosa nella vicina camera, e quindi passando non per la porta dalla quale è entrata, ma da un’altra attraverso la quale il bagno comunica con lo spogliatoio annesso alla camera da letto, si reca qui. Pochi minuti dopo, l’Ispettore Lord, dabbasso, mentre gli invitati e il suo amico Pons sono nella sala dove ci sarà il concerto, sente il suono di un telefono, ma non capisce a prima vista da dove venga; quando alza la cornetta, viene a sapere dal dottor Earley, andato via poco tempo prima perché chiamato a casa di un paziente che sta molto male, che quegli non ritornerà a casa per esibirsi, perché il suo paziente è morto e quindi deve sbrigare anche faccende di carattere burocratico: prega Lord di riferire l’inconveniente alla padrona di casa scusandolo. Mentre posa il ricevitore, Lord è incuriosito da un debole bagliore di luce in fondo ad un corridoio, in cui sa che non ci sono luci, ma mentre sta per andare a vedere, sente prima un grido forte e poi lo stesso grido più attenuato, provenire dal piano di sopra. Slanciandosi per le scale, sente un rumore provenire dalla camera da letto padronale, vi entra, e vede Charmion mortalmente pallida che guardando in un punto sta per svenire. La sorregge in tempo per vedere anche lui, un corpo disteso per terra vicino al letto: è la padrona di casa, morta, con un pugnale dall’insolita foggia, ficcato in gola, cosicchè il manico esca parallelo al mento.
Lord, immediatamente vede un telefono e cerca di chiamare la polizia, ma la linea è muta perché qualcuno ha reciso i fili: si scoprirà che la forbice usata è quella che proviene dal cestino dei lavori di ricamo della padrona, posto altrove. Lord, depone Charmion sul letto e, dopo essersi accertato della morte di Victoria Timothy, scende dabbasso per chiedere al maggiordomo, Rath,  quando la padrona di casa fosse salita. Inoltre si rivolge al suo amico Grant Worcester, pregandolo di avvisare la polizia perché c’è stato un omicidio, anche se quegli sulle prime non gli crede. Intanto, l’attenzione di Lord è nuovamente attratta dal corridoio buio dal quale esce fioca una luce: vi si reca e capisce che è attraverso di esso che il museo è comunicante alla casa. Penetratovi, trova in una enorme stanza, rischiarata da una debole luce, due tali, Springer e Quincey, sedicenti egittologi, che stanno discutendo sulla datazione di qualcosa che attrae l’attenzione di Lord: è lo stesso pugnale che pochi minuti fa era conficcato nella gola della vedova Timothy  Come mai è lì,  per di più del tutto pulito?
Presentandosi ai due e informandoli della morte della padrona di casa, Lord riesce a sapere non solo i loro nomi ma anche a capire che quel pugnale è il gemello dell’altro utilizzato per l’omicidio, e che entrambi si trovavano in una vetrina del museo. Quando i tre entrano in casa, stanno arrivando i poliziotti, al comando del tenente Bergman della polizia di Hartford
In base ai tempi, l’omicidio parrebbe commesso nell’arco di circa sedici minuti, dalle 22.45 (orario in cui la padrona di casa è stata vista salire, dal maggiordomo, che lo testimonia) alle 23.01 (momento della scoperta del cadavere da parte di Lord). Solo che in questo arco di tempo tutti sembrerebbero essere in una botte di ferro: la maggior parte degli invitati, compresi i coniugi Worcester, il dottor Pons, Russell, erano al ricevimento e ancora lì erano quando è stata data la notizia della morte di Victoria Timothy e nessuno ha visto qualcuno allontanarsi; i due egittologi erano al momento del grido, nella loro saletta del museo a esaminare l’altro pugnale, e, a meno di non coprirsi l’un l’altro, non sarebbero potuti essere stati loro (inoltre loro non avrebbero mai saputo dell’esistenza del filo telefonico e del posto dove trovare le forbici, oppure si? ); il dottor Earley addirittura era fuori casa e la telefonata arrivata da fuori lo testimonia. E allora? Chi mai può esser stato ?
All’udienza davanti al coroner, il tenente Bergman, riunite tutte le prove, chiamati Charmion e Lord a testimoniare, ricostruita la scoperta del corpo, chiamata Charmion successivamente a spiegare perché mai una volta finito il gargarismo, non fosse semplicemente uscita dal bagno per scendere giù ma avesse allungato il percorso entrando nello spogliatoio e da qui nella camera della defunta da cui sarebbe dovuta uscire nel vestibolo che portava alle scale, e non avendolo saputo spiegare, il capo delle indagini la incrimina come assassina, pur nella irritualità di ciò.
A questo punto, Michael Lord, il dottor Earley e altri convengono di cercare di salvare la ragazza.
Durante l’interrogatorio davanti al dottor Earley, il coroner incaricato di definire la natura della morte della Signora Timothy, Grant Worcester.  amico di Lord (è lui che lo ha invitato al ricevimento) accusa pubblicamente un tale Kopstein, politicante con amicizie poco raccomandabili, di aver fatto uccidere la donna, oppostasi alle sue pretese; e dice di aver visto un uomo fuggire dalla casa. Tuttavia, per nuove che siano queste rivelazioni, sono poi smentite dalla rivelazione che nessuno è uscito di casa dopo che era andato via il dottor Earley: è testimoniato da molti.
Tuttavia Kopstein rimane un altro punto da chiarire. Come pure si viene a sapere che i due presunti egittologi, amici del marito della vecchia uccisa, non erano stati effettivamente sempre insieme nel museo a datare il pugnale, come hanno rivelato agli inquirenti, ma a turno erano andati alla toilette lasciando quindi la vetrina dei due pugnali a disposizione dell’altro, sempre che non sia stato quello che ha detto di esser andato alla toilette, a uccidere la riccona.
In altre parole, se prima gli alibi erano inattaccabili, ora cominciano a vedersi delle smagliature.
Per di più si scopre che Quincey aveva un serio motivo anche lui per uccidere: aveva una cambiale in scadenza di duemilacinquecento dollari che avrebbe dovuto pagare alla vecchia il giorno dopo l’omicidio della stessa.
Il Dottor Earley chiama al telefono e tutto contento afferma che in seguito a una serie di verifiche, la posizione di Charmion si è modificata, perché non è emerso alcun possibile movente a suo carico, come pure qualcuno, il Capo della Polizia, aveva insinuato che vi potesse essere.
Altre cose strane tuttavia avvengono: dalle mappe dei vari piani della casa, utilizzate nella ristrutturazione della stessa, risulta strappata quella concernente proprio il primo piano, dove è stata assassinata la vecchia Timothy, un dedalo di corridoi, angoli bui, e stanze, senza un nesso, a cui si accede non solo attraverso la scala principale per la quale sono saliti Charmion e Lord, ma anche attraverso una secondaria. Nuovi interrogativi.
Lord vorrebbe reinterrogare Quincey a proposito della cambiale di cui non aveva parlato, ma trova la porta del museo chiusa, sprangata dall’interno e per di più vede scorrere sotto alla porta dei rivoli di un liquido viscoso e rosso scuro che è indubbiamente sangue. Spara ai cardini della porta, riescono ad abbatterla, senza che cada addosso al povero Quincey riverso per terra, che loro trovano con l’altro pugnale gemello, conficcato nella scapola sinistra, il quale dopo aver farfugliato delle parole che al momento sono senza senso, muore.
La stanza era chiusa dall’interno. Gli astanti la perquisiscono: non c’è nessuna porta o finestra che possa essere stata usata per scappare e per di più i sarcofagi sono tutti sigillati da pezzi di scotch vecchio e ingiallito. Come è riuscito l’accoltellatore a eclissarsi, qualche minuto prima che arrivassero tutti quanti, senza che loro avessero visto alcuno fuggire?
Dopo che Lord avrà innanzitutto decifrato le parole mormorategli all’orecchio dal morente Quincey, che Springer rivelerà essere una formula magica egizia: Quincey avrebbe mormorato sersew wah wah wah wah, cioè 6-1-1-1-1, perché ossessionato dalla magia di Ser Wah, l’omicida verrà inchiodato nel corso di uno spettacolare finale in cui verrà chiarito come sia stato commesso un primo delitto senza che nessuno potesse averlo commesso, e come abbia potuto fuggire un assassino da una stanza chiusa, non prima che un inattaccabile alibi sia stato frantumato.
Straordinario romanzo di Daly King, Arrogant Alibi è uno dei più bei romanzi degli anni ’30: fantastica ambientazione, in una casa sinistra, piena di nascondigli e corridoi bui, mischia il mystery ad enigma (qui abbiamo il trionfo del Whodunit) con il mystery psicologico (con il trionfo del Howdunit), un delitto impossibile e un delitto in una camera chiusa (meccanismi di un romanzo basato sul Whodunit) mischiati al procedimento psicologico per frantumare un alibi inattaccabile (Howdunit), creando una superba messinscena in cui i sospetti e sospettabili appaiono e scompaiono, gli indizi misteriosi si accavallano (il filo del telefono reciso, i pugnali, l’orario dell’orologio elettrico nella camera dell’uccisa avanti di oltre venti minuti rispetto all’ora precisa, il misterioso numero 6-1-1-1-1), in cui persino le piantine dei vari piani in cui si consuma la tragedia contengono enigmi (la pagina strappata con la mappa del primo piano di Perkette). Un romanzo straordinariamente vandiniano, se per vandiniano riteniamo il mystery ad enigma più complesso in assoluto.
Il ragionamento che sottende alla frantumazione di un alibi inattaccabile e all’inchiodamento di un omicida diabolico, è complicatissimo, figlio degno di tutta quella letteratura che proprio da Van Dine originò. Non posso infatti non pensare al ragionamento estremamente complicato cui si rifanno The Bishop Murder Case, di S.S.Van Dine,  The Greek Coffin Mystery, di E.Queen e anche About the Murder of Geraldine Foster di A. Abbot: è come se Daly King avesse attinto da tutti gli altri autori vandiniani che prima di lui avevano esordito nell’ambito del romanzo, creando un super romanzo che ha caratteristiche prese da varie fonti, ma che nel tempo stesso non è mero collage, ma nuova opera originale che trascende le sue stesse fonti originarie, che crea e ricrea tutte le problematiche del romanzo ad enigma anni ’30 portandole ad un livello inusitato di perfezione stilistica.
Del resto, che sia un romanzo vandiniano è presto detto: innanzitutto Michael Lord è accompagnato dal suo amico lo psicologo Pons, e forma così una coppia, artificio già creato da Conan Doyle, ma reinventato da Van Dine, in maniera tale che uno dei due elementi sia una figura istituzionale: Ellery è legato a suo padre che è un Ispettore di Polizia, Philo Vance è legato a Markham che è un Procuratore Distrettuale, Abbot è legato a Thatcher Colt che è un Commissario di Polizia Metropolitana. Infatti qui Pons, psicologo, che a contare le lettere del nominativo intero, ha lo stesso numero di quelle che formano quello di Daly King (è come se l’autore si impersonasse nell’amico di Lord), accompagna un Tenente di Polizia, promosso Ispettore, figura che è molto vicina, e quindi può esser stata creata avendo come modello proprio Abbot. Inoltre è presente un artificio che richiama un altro vandiniano celebre, cioè Ellery Queen (almeno nei suoi romanzi degli anni ’30), ossia il dying message, il messaggio del morente: cos’altro è appunto Sersew Wah Wah Wah Wah ? E ancora vandiniano è un’altra caratteristica: l’ambientazione egizia. Infatti, a partire dai primi anni del 1900 in cui vennero scoperte molte tombe e vennero intrapresi importanti scavi in Egtitto fino ad arrivare al 1922, anno della scoperta della Tomba di Tut-Ank-Hammon, molti sono i romanzi che riportano ambientazioni egizie, da R. Austin Freeman (The Eye of Osiris, 1911) a Dermot Morrah (The Mummy Case Mystery, 1933), ad Agatha Christie (Death on the Nile, 1937 e Death Comes as the End, 1944. Ma, nei romanzi della cosiddetta scuola vandiniana, essi assurgono ad un vero e proprio carattere distintivo. Infatti a partire dal romanzo di S.S. Van Dine, La Dea     della vendetta (The Scarab Murder Case, 1929), coloro che vollero riferirsi a Van Dine copiandone i tratti dello stile narrativo, finirono per creare un romanzo che avesse ambientazione egizia o che presentasse comunque manufatti che si riferissero all’antico Egitto o comunque ambientazioni esotiche o comunque ambientazioni in Musei che potessero comunque derivare da quella originaria di Van Dine: Ellery Queen (The Egyptian Cross Mystery,1933); Rex Stout (Red Threads, 1939) in cui l’ambientazione egizia si trasforma in ambientazione indiana, ma un sarcofago c’è sempre; Clyde B. Clason (The Man From Tibet, 1939) in cui all’ambientazione egiziana se ne sostituisce una tibetana ; Richard Burke (Chinese Red, 1940) in cui l’ambientazione esotica diviene qui cinese; e infine questo romanzo di Daly King. Ci sono persino due racconti di Stuart Palmer, ambientati in musei, tra cui The Riddle of the Dangling Pearl, 1933).
Lo stesso escamotage che l’omicida utilizza per farla franca, ci riporta al secondo romanzo di Van Dine The Canary Murder Case, non perché sia lo stesso, ma perché l’uso di un certo meccanismo, permette che l’omicida costruisca la sua estraneità alla realizzazione del delitto.
Infine la Camera Chiusa: quando la Camera è più chiusa che mai, e suicidio non può esserci stato, e non c’è stato qualcosa che abbia spostato il tempo dell’assassinio, e non ci sono le condizioni tali che l’assassino abbia potuto confondersi con chi sia entrato nella stanza, perché magari c’era buio o fumo, la soluzione è solo una: deve esserci una qualche forma di uscita mascherata. Che poi viene trovata, ma ahimè è tenuta bloccata dall’altra parte, da un chiodo la cui capocchia arrugginita porta a ritenere che quella uscita non sia stata uitlizzata da molto tempo. E allora?
Un nuovo colpo di scena cambierà questa soluzione in un’altra.
Ma il colpevole fuggirà, solo che non scamperà ad una morte terribile, che ci riporterà ad altro capolavoro di S.S. Van Dine,  The Greene Murder Case.

Pietro De Palma

lunedì 8 agosto 2016

Joseph Commings : Il Fantasma della Galleria (Ghost in the Gallery, 1949) - trad. Alessandra Roccato - Delitti Impossibili N.2 , Garden Editoriale,1993



Joseph Commings è un autore che ogni amante dei Delitti Impossibili e delle Camere Chiuse dovrebbe conoscere.

Nato a Monte Craven nel 1913, Commings sognò per tutta la vita di diventare famoso. Ma nella vita bisogna anche avere fortuna, e Commings non la ebbe, anche se è considerato dalla critica uno dei maggiori autori di storie con delitti impossibili, al pari Hoch, di Rawson o di Carr. Creò il colossale Senatore Brooks U. Banner, l’equivalente del Fell di Carr, che fece esordire nel racconto Murder Under Glass del marzo 1947, pubblicata nella rivista 10 Story Detective. Successivamente cominciò a pubblicare storie in un altro magazine,  Ten Detective Aces  con altro personaggio, Mayor Thomas Landin. Pare che fosse stata una scelta dell’editore, che Commings diversificasse le storie pubblicate qui da quelle pubblicate nell’altro magazine, puntando su un personaggio diverso. Tuttavia tutte le storie pubblicate con Landin vennero poi ristampate cambiando il personaggio nel senatore Banner.  

Il Magazine più importante era E.Q.M.M., ma pur sottoponendo suoi lavori a Dannay, non ebbe la fortuna che essi venissero accolti, non piacendo a Dannay – pare – le caratteristiche del Senatore Banner. Deluso e depresso, Commings non scrisse altri racconti con Banner sino al 1957, quando la rivista Mystery Digest accolse tra le sue pagine sue opere. Se la collaborazione con tale rivista andò avanti sino al 1963 –dal 1961 ne era stato anche redattore capo – fino al 1968 cominciò quella con altra rivista, The Saint Mystery Magazine, per cui pubblicò pochi racconti.

Non riuscendo a tirare avanti facilmente, si improvvisò anche autore di storie porno, visto che i suoi sogni puntualmente si infrangevano; e pure le sue speranze che qualcuno si offrisse di pubblicargli un suo qualche romanzo con Camere Chiuse o Delitti impossibili, cosa che non accadde mai. Si sa però che almeno un romanzo con delle Camere Chiuse lo scrisse, per poi essere bruciato per la disperazione che nessuno accettasse di pubblicarlo.

A partire dal 1979, la fortuna pensò bene di arridergli in minima parte, e finalmente un altro racconto con Banner, scritto a quattro mani con Hoch, potè essere pubblicato, sulla rivista Mike Shayne Mystery Magazine, su cui continuò a scrivere sino al 1984.

Morì a Edgewood nel 1992

L’ultima storia scritta, The Whispering Gallery, rimase inedita finchè fu pubblicata nel 2004,nell’antologia Banner Deadlines, dalla Casa Editrice di Douglas G. Greene, Crippen & Landru.

Ghost in the Gallery, fu pubblicato nel 1949 dalla rivista  Ten Detective Aces  con altro personaggio, Mayor Thomas Landin, e successivamente ripubblicata cambiando solo il personaggio principale.

La storia comincia con un colpo di scena, e già in questo denota una certa originalità: Linda Carewe ha ucciso il marito DeWitt Carewe. E dopo averlo ucciso corre tra le braccia dell’amante Borden Argyll, un affermato pittore. Un classico. Lo ha ucciso propinandogli cinque grani di arsenico. Non è assassina per malvagità e neanche per avidità anche se in questo caso i presupposti ricorrerebbero, ma per necessità: ha sposato il marito otto mesi prima, avendolo conosciuto un anno prima. Nella conoscenza che mai era diventata vero innamoramento quanto invece una sorta di turbamento, erano confluite varie istanze: la ricchezza dell’uomo e la sua modestia economica, e l’età: quaranta lui, ventitre lei. Ma quello che aveva attirato lei era stata la sua energia disumana: ostentava una sicurezza che lei non aveva, e produceva ricchezza laddove gli altri fallivano.  Tuttavia su di lui giravano voci su una sua natura demoniaca che anche se non vere testimoniavano che il fare del bene non era sua prerogativa.

Qual è invero la sorpresa quando Linda vede entrare nella galleria, laddove si trova lei e Borden, proprio suo marito con un ghigno crudele, che rinfaccia loro di non averlo ucciso, perché è immortale o quasi e li sfida a portarer a termine la loro impresa. Detto ciò scompare dietro una curva di un corridoio. Loro gli vanno dietro, tanto per fermarsi davanti ad una porta su cui è scritto AMMINISTRAZIONE. La porta a vetri, fa vedere tutto all’interno della stanza: c’è proprio lui, Satana in persona, DeWitt Carewe dietro una scrivania. Solo lui. Nessun’altra uscita tranne quella dietro cui sono loro. Spegne la lampada che sta sul piano. Argyll a sua volta accende un fiammifero ed apre la porta. Linda non vuole perché teme per la vita di Borden ma qual è la sorpresa quando, dopo aver acceso la luce, trovano nella stanza non DeWitt ma Phillis Remington, la modella di Borden, appena uccisa. Ma DeWitt? Dover si è cacciato? Come è potuto uscire dalla stanza, la cui porta era presidiata dalla moglie, e dentro cui si trovava il pittore che lo aveva ritratto in un quadro che si ispirava al soprannaturale?

Mentre si stanno lambiccando arriva il Direttore della galleria, George Honeywell. Interrogandolo, vengono a sapere che da dove viene lui, cioè dalla sua stanza, non ha visto nessuno. In altra parole. Carewe è scomparso. Mentre camminano nella galleria si trovano dinanzi un quadro dipinto da Borden a soggetto soprannaturale: rappresenta un lupo mannaro che ha le sembianze di DeWitt Carewe intento a dilanbiare le carni di una donna con le fattezze della modella assassinata. Si viene a sapere poi che i due erano stati amanti già prima che lui si sposasse con Linda, e che lei lo ricattava perché non spifferasse alla moglie che avevano continuato a vedersi anche dopo il matrimonio. Il movente dell’omicidio quindi sarebbe il ricatto.

Honeywell va a chiamare la polizia e in quel mentre Linda sente uno strano rumore, simile ad una veneziana che viene abbassata. Solo che nella galleria, veneziane non ve ne sono.

Le ore passano, e la polizia non viene a capo dell’arcano. Borden decide di rivolgersi al Senatore Banner, esperto di delitti impossibili: lo conosce perché lo ha ritratto tempo prima.

Banner viene introdotto nella Galleria da un poliziotto che lì presta servizio.

Dopo aver esposto tutto a Banner, anche dello strano rumore, egli viene a sapere che lì vicino c’è una saletta dove vengono proiettate le ombre cinesi. Srotola lo schermo e vede…

Il racconto è una chicca, un piccolo capolavoro, scelto insieme ad altri racconti, da Jack Adrian & Robert Adey per la loro fortunatissima antologia The Art of The Impossible.

Inutile dire che dietro lo schermo trovano il cadavere di DeWitt Carewe, impiccato. Risolta la sparizione.Il cadavere era in uno spazio di soli trenta centimetri, tra lo schermo e la parete di fondo: suicidio o omicidio?

Il Senatore Banner risolve l’enigma spiegando come non era stato possibile che avessero trovato nella stanza Carewe, mentre avevano trovato il cadavere della sua amante; e lo fa, applicando nozioni di fisica ottica. In questo mi sembra che la spiegazione si avvicini a quella del secondo omicidio ne The Hollow Man di Carr. E come lo stesso Carewe e la sua mante siano state vittime di uno spietato burattinaio, che li ha uccisi, fingendo di essere d’accordo con lui per imbrogliare la moglie.

Il racconto comunque non ha solo un fantastico enigma della Camera Chiusa risolto brillantemente, che in sostanza  non risponde a nessuna delle tre istanze temporali, valide per spiegare un delitto in una camera chiusa (delitto compiuto prima, delitto che si compie nell’attimo, delitto compiuto dopo) perché la sparizione di DeWitt Carewe avviene altrove, e proprio la natura particolare della porta  a vetri, del buio e della luce flebile, fa sì che si crei un effetto illusionistico tale che si creda che DeWitt sia in una stanza invece che altrove; no, il racconto ha anche una atmosfera straordinaria.

Commings sin dalle prima battute crea le condizioni perché si creda a DeWitt come ad un essere dalla natura demoniaca: il suo aspetto; le dicerie circa la sua natura demoniaca (vampiro o lupo mannaro); il luogo dove Linda lo aveva incontrato per la prima volta, un bosco, in cui terra e cielo era dello stesso livido colore (il colore della morte); lo stormire delle fronde che Linda avrebbe dovuto interpretare come un monito sulla natura di quell’essere le stava dinanzi quando si erano incontrati.

Non solo.

A me pare straordinario come Commings, con un parallelismo, con una figura retorica di indubbio fascino, insinui prima che il delitto si compia, anzi prima che i delitti si compiano, l’idea stessa che la morte sia di casa lì: il pomeriggio è uno piovoso e tetro di fine autunno; l’acquazzone fa sì che la Galleria Honeywell, ricoperta da marmi di color verde scuro (un marmo usato nei cimiteri), luccichi come una tomba.

E che lo stesso delitto e la sparizione dell’omicida, siano da addebitare a fatti di natura soprannaturale, da mettere in relazione con la pretesa natura demoniaca dell’essere di cui precedentemente sono stati ipotizzati i caratteri. In sostanza quindi, tutto il racconto è un’illusione. 

Fino alla spiegazione finale, ogni cosa che accade ha lo scopo di trarre in inganno: la pretesa natura di DeWitt, l’omicidio perpetrato in suo danno dalla moglie (ci troviamo in un altro caso in cui l’arsenico viene utilizzato come arma di delitto senza esserlo, delitto d’impeto intendo: infatti l’arsenico uccide a distanza di almeno tre giorni, e non immediatamente), il primo delitto e la sparizione di De Witt, il secondo delitto, il rumore che sente Linda, il dipinto che è quasi la rappresentazione del delitto che si pretende sia appena avvenuto (uccisione di Phyllis ad opera di DeWitt), la dislocazione di DeWitt, l’uccisione della modella, l’assassino complice assieme della modella e di DeWitt. Il suo stesso movente è offerto al lettore, prima che si capisca che lui è stato l’omicida.

Altre due cose mi sembrano estremante interessanti in questo racconto: come vengano introdotti  gli assassini (il presunto e l’effettivo),  e il Senatore Banner.

L’omicida presunto, cioè DeWitt Carewe, abbiamo già detto come venga introdotto, perché cioè si pensi a ragione che egli sia un essere di natura demoniaca. Che si serve delle sue arti per perpetrare un delitto impossibile: forse che il diavolo non possa scomparire da un luogo e apparire altrove? Del resto è degli essere soprannaturali (demoniaci o divini) avere il dono dell’onnipresenza. Tuttavia anche il vero omicida viene introdotto in un certo modo: ha la testa calva, un faccione rotondo, una veste da preghiera, gli occhiali legati ad un laccio nero. Una descrizione che si avvicina molto a quella del Dottor Fell. Possibile che l’omicida venga paragonato a Fell? Può essere se si vede in lui, non tanto lo spietato omicida quando l’essere che realizzi un delitto quasi perfetto, che sublimi il concetto stesso di Camera Chiusa, realizzandone uno che richiami quello dell’omicidio più straordinario spiegato da Fell stesso in The Hollow Man
Inoltre il Senatore Banner, anche lui, viene descritto in un modo caratteristico: la pancia prominente, la camicia a righe verdi color menta e bianche, la figura da King Kong, le bretelle rosse, la cravatta unta come se fosse stata inzuppata nella minestra (ed era accaduto proprio questo!!!). A chi si assomiglia? Secondo me a Merrivale, al Grande Vecchio. Che molto spesso viene ridicolizzato nell’aspetto, prima che come al solito riesca a risolvere l’enigma più pazzesco: perché il paradosso riesca e sia godibile, è necessario che il delitto venga risolto non tanto da un Philo Vance che alla lunga risulta antipatico ma da chi sembrerebbe essere l’unica persona non in grado di risolverlo.

Come in questo caso lo è Banner.

Pietro De Palma