domenica 25 settembre 2016

Edward D. Hoch: La casa parlante (The Problem of the Whispering House, 1979) - trad. Hilia Brinis, in Ellery Queen presenta: Inverno Giallo 1988-89

Oggi parliamo di un racconto di Edward D. Hoch.
Il racconto risale al 1979: fu pubblicato per la prima volta su EQMM dell'Aprile 1979 e più tardi fu inserito nella raccolta "More Things IMPOSSIBLE. The Second Casebook of Dr. Sam Hawthorne".

Fu pubblicato in Italia sulla raccolta "Ellery Queen presenta: Inverno Giallo 88-89".
Il dottor Sam Hawthorne racconta un caso accadutogli nel febbraio del 1928, a Northmont.
La casa dei Bryer è una casa infestata, lo sanno tutti. E' una casa in cui si sentono voci e bisbiglii, nonostante non vi sia nessuno, e sia disabitata da molto tempo. Queste voci sulla presenza di spettri mettono in allarme i padroni della proprietà che vorrebbero venderla e che ora invece hanno paura di non poterlo più fare al prezzo che loro avrebbero voluto imporre. Perciò assoldano un cosiddetto cacciatore di fantasmi, Thaddeus Sloane e lo mandano lì. Thaddeus che si è informato della vita nel centro rurale, viene a sapere di Sam Hawthorne, il medico condotto che ha risolto molti casi definiti impossibili, e quindi si affida a lui: chi meglio di un esperto di delitti impossibili potrebbe dargli una mano? E' pur sempre vero che anche questo è un caso impossibile, anche se manca il cadavere (per il momento, diciamo noi). Hawthorne accetta, ma prima deve andare a visitare Billy Andrews un ragazzo che è caduto sul suo forcone in fienile e si è ferito ad una gamba. Va, medica la gamba e chiede alla madre sulla casa dei Bryer: la leggenda dice che quelle voci sarebbero quelle degli schiavi intrappolati per sempre in una stanza segreta, in quanto quella casa era usata come stazione di sosta nella fuga degli schiavi verso il Canada.
Sloane e Hawthorne vanno in quella casa armati solo di una lampadina tascabile, aprono con la chiave fornita dall'agenzia immobiliare che ha in vendita la casa, e si trovano in una casa del tutto vuota: qua e là delle sedie o mobilio di poco pregio che non è stato portato via, ma di voci e bisbiglii neanche l'ombra. Sloane decide di aspettare la notte, perchè di notte appaiono gli spettri. Quella notte, sarà stata l'atmosfera o la tensione, fatto sta che bisbiglii paiono udirli e poi una voce sommessa che minaccia morte nel caso i due non vadano via. Sloane ha tracciato in una camera un cerchio e dentro un pentacolo col gesso. Ad un certo punto sentono una porta sbattere e dei passi. Si riparano in una camera (stanno al primo piano) e ad un certo punto vedono un vecchio barbuto che passa davanti a loro, infagottato in un giaccone, che fa luce con una lanterna. Percorre il corridoio dove si affaccia la loro camera e poi trafficando con lo stipite di una porta, fa sì che nella parete di fondo del corridoio si apra una porta: la stanza segreta. Il vecchio entra e la porta si chiude. Passa mezz'ora, solo mezz'ora, ma sembra che sia passato più tempo. Il vecchio non esce. Intanto mezzanotte è passata e i due decidono di entrare in azione: Thad va a prendere una macchina fotografica con treppiede, mentre Sam prova a vedere come possa aprirsi la porta segreta: un pezzo della modanatura dello stipite di una porta, si muove. E quando la porta si apre, vedono alla poca luce della lampada, il vecchio seduto ad un vecchio tavolo, di fronte a loro. Alla luce della lampada non si è mosso: brutto segno. Sam interviene e scopre che è morto: ha un coltello affondato nel fianco sinistro in direzione del cuore; per terra una pistola di piccolo calibro. Chi mai ha potuto ucciderlo, se nella stanza non vi è nessuno (è un guscio in cemento senza porte nè finestre e tantomeno mobilio)? Loro hanno visto entrare solo il vecchio. Nessun altro. Problema sconcertante, già di per sè impossibile. Che poi diventa ancor più impossibile quando Sam esaminato sommariamente il cadavere formula la sua ipotesi che sia morto da almeno quindici ore se non venti: è già sopravvenuta la rigidità cadaverica. L'ipotesi verrà confermata dal medico legale, quando interverrà la polizia chiamata dai due. Dall'esame della polizia dello sceriffo, spunta fuori che la pistola ha sparato un colpo ed è proprio Sam Hawthorne a scoprire un piccolo foro nella gamba sottile del tavolo ed estrarre un proiettile contorto. Per terra vi è una vasta chiazza di sangue. La polizia esamina tutto, persino il pavimento ma altre uscite non  ne vengono trovate: chi è mai il vecchio che loro hanno visto entrare, e che poi hanno ritrovato col giaccone, la barba, seduto al tavolo, se non il fantasma dell'ucciso?
Lo sceriffo non crede ai fantasmi e neanche Sam, ma pur sempre una spiegazione deve esserci! Del resto la voce loro l'hanno sentita! Sam,trafficando all'esterno con un pezzo del tubo della grondaia, riesce a far sentire la sua voce diffondersi nella casa: è un trucco. Il tubo di grondaia comunica col solaio, dove la voce si amplifica e si diffonde nella casa grazie alle bocchette di aerazione. Se è un trucco, allora qualcuno che non è un fantasma deve aver fatto qualcosa!
Qualcuno mette una tanica di benzina collegata per mezzo di stracci alle candele nel cofano dell'auto di Hawthorne tentando di mandarlo al Creatore. Il tentativo fallito convince Sam che i fantasmi sono solo un pretesto e che qualcuno ha utilizzato la stanza segreta per nascondere un cadavere. Tuttavia loro hanno visto qualcuno entrare: un vecchio con una barba. Il medico legale dirà poi che la barba era posticcia e quel viso non era sconosciuto, ricordava qualcuno. Dalle indagini della polizia si saprà che il morto era un certo George Gifford, un tale che viveva di imbrogli. 
Investigando Thad e Sam su una possibile apertura segreta della stanza segreta, oltre alla porta pure segreta, fattosi rinchiudere Sam dal cacciatore di spettri dentro, rimarrà bloccato senza possibilità di essere tratto in salvo, mentre Sloane che avrebbe dovuto aprire, non apre.
Sam troverà un'apertura segreta nel pavimento, delle assi che scivolano e poi ritornano al loro posto, che danno su un'intercapedine stretta, ma tale che qualcuno strisciando la possa attraversare e poi grazie ad una scala, scendere in una piccola dispensa al piano sottostante.
Poi inchioderà l'assassino e il suo complice e risolverà il caso.
Con questo racconto, Hoch tenta di misurarsi col delitto impossibile in atmosfera soprananturale, tipico di John Dickson Carr. Ma il racconto è interessante anche perchè contiene dei particolari che saranno sfruttati altrove.
Innanzitutto osservo che non è una vera e propria camera chiusa canonica, perchè la camera segreta, a ben vedere, un'altra uscita segreta ce l'ha: Sam se ne accorge, perchè dopo oltre 45 minuti che è dentro la camera non risente di mancanza di ossigeno e la fiamma della lanterna vibra al passare della corrente. Però, se non è una camera chiusa effettiva, il racconto è purtuttavia notevole per la soluzione, che è veramente immaginifica: come Sam riesca a inchiodare l'assassino con una serie di deduzioni inoppugnabili è veramente notevole, e tutto partendo da una pallottola di piccolo calibro che non è riuscita a forare la gamba sottile del tavolo della camera.
Osservo - ma la cosa è applicabile in qualsiasi racconto di Hoch - che lo scrittore statunitense, laddove suoi illustri colleghi concepivano (concepiscono ancora) il racconto come un romanzo in minatura ed un parco di sospettabili se non numeroso almeno non ristretto, concepisce il racconto alla stregua di coloro che sono impegnati più che a concentrare la propria attenzione sull'assassino sul metodo usato dall'assassino per uccidere e sulla messinscena vera e propria. In sostanza questo racconto si configura come un Howdunnit. Poi dalla soluzione, scaturirà l'inquadramento del colpevole, e da ciò deriva che il numero dei sospettabili sarà ristretto. Anche in questo caso lo è. Molto ristretto. Comunque sia capire chi sia e come Sam abbia fatto ad inchiodarlo non è affatto facile: qui è il virtuosismo narrativo di Hoch.
L'ambientazione del suo racconto è tipicamente carriana:la casa infestata riporta alla mente la casa stregata in The Plague Court Murders, o quella in The Man Who Could Not Shudder o ancora in Deadly Hall. La casa usata come stazione di sosta per gli schiavi in fuga verso il Canada, riporta alla mente un altro romanzo carriano in cui gli schiavi hanno una loro importanza: Papa La-bas. Il vecchio con la barba posticcia forse non ci ricorda il tipo con la barba posticcia trovato morto con un pugnale infisso (guarda caso anche nel nostro caso) in The Arabian Nights Murder ?
E ancora, chi entra in una stanza e non ne esce più, perchè trovatovi assassinato, non ci ricorda il racconto di Sladek che vinse un  concorso che aveva come presidente di giuria Agatha Christie: By an Unknown Hand ? E la situazione di impossibilità manifesta, creatasi con la scoperta che la morte risale a parecchio tempo prima, non ci ricorda The Hangman's Handyman  di Hake Talbot ?
A sua volta però la scoperta che il tubo della grondaia possa ricreare delle voci all'interno della casa, mi ha ricordato un romanzo posteriore di Paul Halter, A 139 pas de la mort.
Citazioni attive e citazioni passive: questo racconto di Hoch è un catalizzatore di esperienze altrui, assorbite e rilasciate.
Oltre che un racconto interessantissimo. 

Pietro De Palma

giovedì 22 settembre 2016

James Ronald: Promessa mantenuta (They Can't Hang Me, 1938) - trad. Dario Pratesi - I Bassotti N°172, Polillo, 2016

James Ronald, nonostante la cospicua produzione letteraria destinata anche a delitti impossibili e camere chiuse, non è molto conosciuto: nè nel mondo anglosassone, dove si può dire solo due romanzi figurano nelle classifiche, nè tantomeno in Italia, dove nessun suo libro, prima d'ora, era stato pubblicato. A questo ultimamente ha sopperito Polillo, pubblicando They Can't Hang Me, romanzo che, assieme a Six Were to Die , ha sfidato il tempo, finendo addirittura nella speciale classifica stilata da Lacourbe alcuni anni fa.
James Ronald nacque nel 1905 in Scozia a Glasgow. Fu in Gran Bretagna che cominciò a pubblicare i suoi romanzi. La sua prosa molto fresca fu lodata da autori del tempo, tipo August Derleth. Nel 1938, quando era già uno scrittore con un suo seguito, si trasferì in USA a Fairfield (Connecticut) dove rimase fino al 1955. 
Pur avendo scritto 38 romanzi originali, uno solo è il personaggio ricorrente nei suoi romanzi: Julian Mendoza, un giornalista del London Morning World, che apparve per la prima volta in Death Croons the Blues, del 1934. 
Firmò romanzi anche con due pseudonimi: con quello di Kirk Wales ripropose, nel 1941, Six Were to Die, con diverso titolo: The Dark Angel; con l'altro di  Michael Crombie firmò sei romanzi. Infine con il suo nome effettivo, James Ronald, firmò trentuno  romanzi. . Dal romanzo This Way Out del 1940, fu tratto il film The Suspect (1944) diretto da Robert Siodmak, con Charles Laughton.
L'ultimo romanzo risale al 1953, Sparks Fly Upward. Fu un romanziere legato al periodo d'oro del giallo che non riuscì a scrivere molto dopo la fine della seconda guerra mondiale. L'ultimo suo scritto giallo, fu un racconto A Tired Hearth, pubblicato nel 1958 su E.Q.M.M.
Da allora, fino alla morte, avvenuta nel 1995, non scrisse più nulla.
They Can't Hang Me parla di un giuramento di vendetta.
Lucius Marplay è un editore di successo. Ha fondato e diretto l'Evening Echo, il giornale più letto di Londra, portandolo al successo. A quel punto sposatosi e divenuto padre, abbandona progressivamente il suo impegno nella testata, delegandolo a quattro suoi collaboratori, che, invece che rafforzarla, la distruggono, portandolo la testa giornalistica alla rovina. E con essa anche il suo fondatore che, oppresso dai debiti e dalle incombenze, si becca un esaurimento nervoso tale da dover essere ricoverato in una clinica psichiatrica. Dove rimane per vent'anni.
La figlia è divenuta una bella ragazza nel frattempo e ignora che il padre sia vivo: infatti, morta la madre di crepacuore, e affidata ad un tutore, per delicatezza nei suoi confronti non le è stata rivelata l'amara verità, ed invece le è stato detto che il padre è morto. Tuttavia apprende per caso la verità e vuole incontrarlo e qui il suo tutore deve uscire allo scoperto e confessarle perchè suo padre è ancora tenuto in osservazione: è preda di una mania omicida. Ritiene infatti che i suoi collaboratori, che ne lfrattempo hanno rilevato la testata portandolo all'antico successo, lo abbiano raggirato e abbiano provocato tutte le sue digrazie, e perciò ha ordito dei dettagliatissimi piani per ucciderli. Tuttavia, finchè rimangono nella mente del folle, nulla può nuocere. Ma quando Marplay scappa dalla clinica e fa perdere le sue tracce, rifugiandosi nella vecchia sede abbandonata del giornale , in una camera segreta di cui lui solo conosce il meccanismo di apertura, le minacce di tanti anni sembrano risvegliare le paure dei quattro soci. Tanto più quando, uno ad uno, essi muoiono effettivamente di morte violenta: ogni volta viene ritrovato un biglietto di Marplay che conferma di aver mantenuto la promessa.
La prima volta è la volta di Ellis, ucciso con tali violenti colpi di manganello da sfondargli il cranio; la seconda volta è Partridge, in una camera ritenuta sicura al cento per cento, un guscio di cemento senza posti dove nascondersi, e all'esterno vigilata da poliziotti, a venir ucciso con un colpo di pistola, da un fantasma, visto che Marplay sicuramente non è entrato, ma ha lasciato il secondo messaggio; con la polizia che non sa che pesci prendere, il terzo socio, il viscido Craven, la cui occupazione è adescare le segretarie promettendo loro una vita facile in cambio di attenzioni sessuali, e che ha tentato di adescare Joan, la figlia di Marplay, fattasi assumere per intervento dell'aitante Lord Nigel - estensore di una rubrica di gossip sul giornale e innamorato segretamente di lei - allo scopo di procurarsi prove sul comportamento sleale e doloso dei quattro a danno del Lucius Marplay di vent'anni prima, ma gli è andata male (Joan si era anche procurata un disco di dittafono con incisa la confessione di Craven estorta mentre lui era ubriaco, ma è stato rubato da un ex giornalista ora alcoolizzato perso, che verrà a sua volta ucciso dopo aver tentato un improbabile ricatto),viene a sua volta avvelenato con acido cianidrico, senza che sia stato ritrovato il mezzo usato per l'avvelenamento. 


Insomma tre omicidi impossibili: il primo, per impossibilità dell'assassino di aver superato lo sbarramento dei poliziotti (ma superato dall'eventualità che lo stesso si fosse nascosto nella camera segreta della vecchia sede, unita alla nuova da ballatoi); il secondo per manifesta impossibilità, essendo riuscito l'assassino a svanire nell'aria assieme all'arma utilizzata; il terzo per l'assenza dell'arma , anche se Craven è morto in presenza dei poliziotti, dello stesso Ispettore Wrenn e del quarto socio, Peters, dopo essersi spruzzato un profumo, che poi è risultato all'analisi assolutamente privo di gas cianiìdrico.
Il quarto omicidio è nell'aria: viene annunciato, come i precedenti, tramite un trafiletto nei necrologi del giornale, stante l'impossibilità che ciò possa avvenire visti i controlli esercitati. Avverrà per accoltellamento. Tuttavia questa volta l'omicidio sembra andare storto, perchè Marplay verrà fermato e cadrà in acqua. Verrà tuittavia tratto in salvo da uno strano personaggio Alistair McNab, che si è ritagliata la figura di investigatore, cosa che non è nella vita, ma che al momento opportuno, trae d'impaccio la polizia, rivelando i fili conduttori della vicenda e provocando la confessione e il suicidio dell'assassino.
Romanzo molto godibile, è scritto con uno stile molto arioso e leggero, che delizia il lettore.
La storia è risaputa: una vendetta ed una promessa di uccidere. L'espediente non ha una validità solo per la trama della storia, ma anche per la creazione di una tensione narrativa, che riguarda un personaggio non cattivo ma pazzo, reso folle proprio dall'infedeltà dei suoi quattro collaboratori: Mark Peters, Ambrose Craven, Sinclair Ellis e Nigel Partridge in cui lui aveva riposto la sua fiducia. 

Si viene a creare inconsciamente (ma io credo che la cosa sia stata voluta dallo scrittore) una sorta di partecipazione del lettore alle vicende che vede narrate: il lettore, anche se in realtà dovrebbe stare dalla parte di chi persegue il bene e aborrisce  il male, finisce per fare il tifo per Marplay e quasi augurarsi che, nonostante tutte le misure prese per evitare che possa portare a termine i suoi propositi omicidi, egli vada avanti nella sua vendetta. Anche perchè il lettore sa che, nella finzione letteraria, ad ogni omicidio impossibile è legato il piacere da parte del lettore amante dei delitti impossibili di carta, che questi avvengano. In questo, il lettore e il pazzo, sono legati dal medesimo filo conduttore: un testo, trovato nella camera segreta in cui egli si è rifugiato: L'assassinio come una delle belle arti, di Thomas De Quincey.
Il romanzo pertanto è un curioso frullato formato da elementi di Thriller (la promessa di uccidere, portata a termine ogni volta con pervicacia, fredda determinazione ed ingegno) e di Mystery, che sembrerebbe essere un Howdunnit (ricerca del come sia sia svolto l'omicidio) stante la evidenza di chi sia l'assassino. Tuttavia alla fine si vede che il Mystery era anche un Whodunnit, perchè l'assassino non era quello che si pensava fosse, ed invece era altra persona.




Interessante è anche la presenza di tre investigatori sul campo: l'Ispettore Wrenn, Joan e Alastair McNab. Questa particolarità potrebbe essere stata mutuata forse dal successo del romanzo di Leo Bruce, tenuto conto che qui  lo sdoppiamento di McNab in preteso investigatore e reale giornalista qual'è, fa sì che si venga a creare la condizione presente nel romanzo di Bruce: tre investigatori che agiscono ed un quarto (il sergente Beef) che da la soluzione.
Nonostante sia un crogiuolo di trovate e il ritmo non si abbassi e la lettura sia piacevole e agevole, il romanzo non è però un vero capolavoro in quanto risente di idee espresse altrove e anche la scoperta del colpevole non è così ardua come in altri romanzi (come quelli carriani e queeniani per esempio), anzi è piuttosto semplice. Il fatto è che l'espediente alla base del preteso thriller (la promessa di uccidere e la conoscenza dell'assassino) che dovrebbe innalzare la tensione, in realtà se la mantiene alta per quanto concerne sia l'estrinsecazione degli omicidi sia l'individuazione di determinati soggetti, McNab per esempio, non è effettiva per l'omicida, perchè non avendo creato le condizioni perchè più soggetti possano essere accusati, ne deriva che "se non è zuppa è pan bagnato", ed eliminato il soggetto primo, il secondo dev'essere per forza quello. Questo perchè il romanzo segue il filone dell'Howdunnit classico (anche se qui c'è un elemento whodunnit mascherato) che punta al sensazionalismo e alla spettacolarizzazione della messinscena, come nei romanzi francesi, laddove, come qui, vi è assenza o comunque poca presenza di elementi psicologici e comunque pochi elementi da sospettare. 
Le idee espresse altrove invece sono da ricercare in espedienti narrativi già utilizzati da altri romanzieri in auge negli anni 'trenta: per esempio i vari omicidi attribuiti a qualcuno già certo in partenza e invece compiuti da altra persona, mi richiamano alla memoria The A.B.C. Murders del 1935 di Agatha Christie, dove c'è anche l'elemento dell'omicida folle a cui si da la colpa di vari omicidi,  preannunciati, come in questo caso. E ancora : Carr e Queen, accomunati dall'espediente del falso colpevole che distoglie l'attenzione da quello vero. Potremmo trovare una certa similitudine in It Walks By Night del 1930, dove tutti pensano che l'autore degli assassini sia Laurent fino quando si scopre che Laurent è stato precedentemente ucciso e la sua identità presa da altra persona. Sembrerebbe, perchè il riferimento più diretto mi pare quello di Ellery Queen, di The Egyptian Cross Mystery: in quel romanzo c'è la promessa di vendetta, come nel nostro caso; la vendetta che si realizza tre volte, come qui; una vittima sacrificale, tenuta segregata e poi uccisa per far credere una certa cosa, mentre qui tale espediente si realizza in parte. Comunque tutto il resto ricorre.
Infine c'è un altra idea espressa altrove, anche se questa volta è dello stesso autore: infatti la promessa di uccidere, ricorre in un romanzo precedente a questo e come questo parecchio famoso: Six Were to Die, del 1932, dove un criminale minaccia di morte i sei responsabili della sua rovina avvenuta dodici anni prima, e anche lì si assiste alla gara tra chi deve mantenere la promessa e chi deve impedirlo. Come dice John Norris, anch'io lego l'ingegno nella creazione delle trappole mortali, ad esempi altrove espressi da altri: infatti il ricordo immediato è quello di John Rhode e dei marchingegni usati da lui per far uccidere nei suoi romanzi, anche se quello inventato nel caso della Camera Chiusa (omicidio Partridge) mi sembra veramente un'arrampicata sugli specchi: un metodo cioè francamente troppo cervellotico, quando il rumore della mano sbattuta con violenza sulla scrivania, avrebbe benissimo potuto mascherare il rumore attutito di uno sparo col silenziatore, cosa che viene eliminata a priori, invece che tutto il resto. Anche il dialogo falso tra l'omicida e la vittima, mi richiama qualche romanzo e racconto di altro autore, dove per esempio l'espediente del ventriloquismo (che non esiste qui) viene utilizzato per far credere che la vittima al momento giusto, fosse ancora in vita: per es. Problem at Sea di Agatha Christie (1936) o The End of Justice, 1927di John Dickson Carr.
Insomma non un capolavoro, ma purtuttavia un romanzo estremamente godibile.




Pietro De Palma 


martedì 6 settembre 2016

Paul Halter : Il demone del Dartmoor (Le diable de Dartmoor, 1993) – trad. Igor Longo – Il Giallo Mondadori N.3098.

Si può dire, senza sbagliare, che la primissima produzione di  Paul Halter sia stata la migliore. Questo non significa che i romanzi degli anni ’90 e della prima decade del XXI secolo siano stati poca cosa (anzi, in alcuni casi, il prodotto finito è stato qualitativamente assai interessante!), ma è altrettanto indubitabile che i primi 7-8 romanzi (eccezion fatta per La malediction de Barberousse, opera a parer mio ancora acerba) siano stati i migliori della sua produzione. Tutti, in un caso o nell’altro, offrono, nessuno escluso, grandi atmosfere e problemi deduttivi di primo piano. Inoltre, con l’eccezione del primissimo romanzo già citato, ambientato in Francia, tutti gli altri (almeno quelli della serie con il Dottor Twist) presentano ambientazioni in Inghilterra.
Non fa eccezione, Le demon de Dartmoor, del 1993.

Una presenza malefica si dice infesti i paraggi del villaggio di Stapleford nella landa desolata del Dartmoor nel Devon: qualcuno crede di aver visto un cavaliere senza testa, in groppa ad un cavallo, anche lui decapitato, galoppare nei pressi della roccia a forma di animale che sovrasta il torrente che bagna il villaggio. Fatto sta che tre ragazze,Eliza Gold, Constance Kent, e Annie Crook fanno tutte una brutta fine: salgono sul promontorio di granito del Wish Tor, ridendo come se stessero colloquiando con qualcuno (che non si vede però!) e poi cadono giù nel torrente tumultuoso come se vi fossero state buttate, vendo ritrovati i loro corpi ( i primi due, non il terzo, che si suppone abbia fatto la stessa fine) più a valle, imprigionati tra gli scogli , nel torrente, massacrati dalla forza della corrente che ne ha sbattuto i corpi più volte provocando fratture multiple e ferite.

Per 6 anni non accade più nulla, anzi si pensa che nulla accadrà più; e la vita riprende sonnacchiosa nel villaggio. Ma un bel giorno, Nigel Manson, attore in vista, compra il castello di Trentice, un maniero in rovina che ristruttura completamente, tranne l’ala sinistra del castello, laddove nel passato ha avuto luogo una morte misteriosa.

La moglie di Nigel, Helen, non vi vorrebbe andare, anche perché sospetta che, Nathalie Marvel, attrice e collega del marito in una fortunata piece teatrale, “L’uomo invisibile”, sia  la sua amante, e che la sua presenza nella loro dimora potrebbe coincidere col tradimento di Nigel.

Se tutto comincia male, poi finisce peggio: infatti Nigel ,fissato di fotografia e possessore di vari corpi macchina, vanitoso e amante delle pose più strane, vorrebbe posare sul davanzale della finsestra, in una posa molto pericolosa. Il davanzale è quello della finestra al secondo piano, nel salone del maniero, che dà sul prato circostante:  nel salone, con lui, sono sia la moglie Helen, vecino al camino, sia il dottor Thomas Grant, medico di Stapleford, seduto in poltrona, alle sue spalle. Nessun altro. Troppo lontani, o impossibilitati ad avere parte in quello che accade sul davanzale, almeno a sentire Franch Holloway, agente teatrale di Nathalie e in passato suo amante, che entra nel salone in pratica un attimo dopo che Nigel cade dal davanzale, con le mani in avanti, come se fosse stato spinto giù, mentre Nathalie lo riprende dabbasso con la macchina fotografica.

L’essere invisibile che ha ucciso le tre ragazze ha ucciso anche lui?

Fatto sta che altre cose inspiegabili accadono dopo: un’ombra rossa che cammina per le strade del villaggio, che riesce a spaventare persino Basil Hawkins, giardiniere, amico di Victor Sitwell, professore di filosofia al liceo di Tavistock; una foto che sparisce dalla locanda dove una sera vanno a sbronzarsi Frank e Victor e altra gente, in cui sarebbe rappresentato qualcuno che avrebbe spaventato Nigel, la sera prima che fosse ucciso (perché Twist immagina che non vi sia uno spirito dietro la sua morte, ma un assassino astuto); il tentativo di uccidere lo stesso Victor, che possiede un’altra duplicazione di tale foto. Qualcuno persino afferma di aver riconosciuto in Nigel, uno dei due bei giovani che anni prima era andati a bisbocciare nella locanda, laddove avevano richiamato l’interesse proprio delle tre ragazze, poi scomparse: possibile che egli fosse l’amante di cui le ragazze qualcuno pensa si fossero innamorate, e che per qualche oscuro motivo le avesse uccise? In quel caso si tratterebbe, per la sua morte, non di assassinio ma quasi di giustizia capitale: un giustiziere venuto dall’al di là? Oppure ci troviamo dinanzi ad una ipotesi campata in aria e Nigel è stato ucciso per dell’altro, magari per quello che egli avrebbe visto nella foto scomparsa?

Sarà ancora una volta Alan Twist a dare un volto al misterioso omicida e a spiegare le morti impossibili delle tre ragazze e di Nigel, accadute tutte e quattro sotto lo sguardo di testimoni attendibili, senza che si sia potuto vedere il loro assassino.

Ancora una volta Paul, in questo romanzo, manifesta il suo amore verso Carr: vi sono infatti molti accenni al suo autore preferito.

Innanzitutto il delitto impossibile davanti a testimoni: Nigel che muore cadendo dalla finestra del salone del castello, richiama immediatamente alla mente un celebre romanzo di Carr, il più breve dei suoi: The Case of the Constant Suicides, 1941 (Gideon fell ed il Caso dei Suicidi), in cui  un uomo cade dalla finestra di una torre, la cui porta era sprangata dall’interno. Secondo me, il romanzo di Paul, ne è una variazione molto affascinante; poi, quando a pagina 75 (16^ capitolo) parla di “L’uomo che spiegava i miracoli” appellando così l’Ispettore Hurst (ma The Man Who Explained Miracles è non solo l’altro titolo del racconto All In A Maze, del 1956, a firma Carter Dickson, ultima avventura di Merrivale, ma anche la famosissima biografia di Carr scritta da Douglas Greene). E infine vi sono delle altre cosette, che secondo me avvicinano questo romanzo a Carr: potrebbe essere una citazione di Carr, il passo finale del 19° capitolo, a pag. 94: “..i riflessi giallastri nei suoi occhi di una strana fissità rivelarono per un istante che non si trattava di una persona normale…”. A me questo passo ha richiamato immediatamente per associazione, lo sguardo dell’assassino di Death-Watch, nascosto tra i tetti. Ma questa potrebbe essere solo una mia fissazione. Invece credo che di più rilevante vi sia un’altra citazione da Carr, anzi da Carter Dickson, che richiama subito alla mente, la caduta dal promontorio delle ragazze: infatti a me ha fatto venire alla mente, She Died A Lady, del 1943, in cui due innamorati cadono dall’alto di una scogliera, nel sottostante oceano (ma nonostante le orme siano solo le loro, è un omicidio: una delle più belle Camere Chiuse di Carr ed uno dei suoi capolavori!). E ancora.. “L’Uomo Invisibile”: il titolo della commedia interpretata sul palcoscenico da Nigel e Nathalie, a me richiama oltre che il romanzo di fantascienza del 1881 di Herbert George Wells, anche una raccolta di racconti di Carr dal titolo The New Invisibile Man (col Colonnello March).

Tuttavia sarebbe sbagliato dire che Halter abbia creato il suo romanzo partendo da Carr: No! Io credo invece che Paul abbia in qualche modo sfruttato qualche cosa di Carr (magari anche inconsciamente), creando tuttavia un’opera originale, direi una delle sue più affascinanti.

Innanzitutto i due romanzieri hanno un’idea diversa delle loro storie: mentre Carr crea delle intense e drammatiche storie, Halter compone delle fiabe “nere”. Oddio, talora crea anche lui delle storie intensamente drammatiche e talora anche grandguignolesche come nei romanzi del ciclo Bencolin di Carr! Il più delle volte, però, Halter crea delle fiabe, con falsi elementi soprannaturali: qui, l’atmosfera è magica, perchè magiche sono le descrizioni dei luoghi (un simile procedimento può esser visto in L’arbre aux doigts tordus o La malediction de Barberousse), così come sono presenti i riferimenti soprannaturali (un uomo invisibile, un cavaliere senza testa, un mazzo di carte diaboliche, un cavallo volante). Inoltre Carr crea delle storie adatte agli adulti, in cui mancano quasi drasticamente soggetti molto giovani, perché la storia viene narrata con gli occhi di un adulto, a differenza di Halter dove invece questi soggetti sono spesso presenti (La malédiction de Barberousse, Le diable de Dartmoor, Spiral) perché la storia è narrata con gli occhi di un ragazzo: per questo, per Halter, il romanzo poliziesco è quello che si dice “una favola per adulti”. Riporto un passo significativo dell’ intervista da me fatta a Paul, circa otto mesi fa, e che ha avuto un’eco abbastanza significativa anche all’estero:

“..Il grosso problema per un romanzo poliziesco, è che la magia del mistero cessa di operare alla fine, quando tutto è spiegato in dettaglio. Abbiamo bisogno di trovare un escamotage per cui il fascino continui a funzionare sempre. L’esempio migliore resta a mio avviso la fine di The Bourning Court di Carr. In altre parole, trovare qualcosa per accreditare il fantastico dopo la spiegazione finale. Come definizione del romanzo poliziesco, Pierre Véry parlava di “favola per adulti” e io sottoscrivo senza riserve questa dichiarazione. Per i bambini piccoli che siamo stati, quelle storie di streghe, di fate e di draghi sono state una vera e propria scuola di preparazione al romanzo poliziesco! E inconsciamente, penso di cercare di trovare questi primi brividi scrivendo le mie storie. Il tema della fiaba è sempre celata al di sotto. Ne “L’homme qui aimait les nuages” 5 , è ancora evidente. L’eroina sembra essere una fata, mentre il colpevole è il “vento”.
Inoltre mentre nel caso dei romanzi di Carr il colpevole quasi mai è una vittima del destino e quasi sempre è un essere che magari ha ucciso spinto dalla necessità, o per fredda e calcolata abilità, ma non per follia pura, nei romanzi di Halter (e anche in Le diable de Dartmoor) fa capolino il tema insistente della follia:
“Sì, mi piace il tema della follia. Ciò consente di presentare modelli vari e sorprendente. Interessanti anche i problemi psicologici legati ai bambini (evitando il sacrosanto stupro dello zio!). Direi che i miei criminali sono spesso “ossessionati” da una passione, una fobia, ecc. Per essere più precisi, avrei dovuto dettagliare ognuna delle mie storie, ma vorrei lasciare al lettore la cura di scoprirlo di persona.”

Un’altra differenza tra Carr e Halter riguarda la costruzione del plot: mentre Carr riserva importanza sia al Come che al Chi, Halter si preoccupa principalmente di spiegare il come un fatto sia avvenuto: non a caso, eccetto La quatriéme porte e Le brouillard rouge, e qualche altro romanzo dei primissimi, come La mort vous invite o La lettre qui tue, non è così arduo inquadrare il colpevole, cosa che avviene invece nel caso di Carr. Questo perché Halter eredita la tradizione del romanzo ad enigma francese in cui ha la prevalenza l’enigma rispetto all’individuazione del colpevole.
Ancora un’altra differenza tra i due concerne i dettagli della storia: mentre in Carr, e in genere nel caso dei romanzieri anglosassoni degli anni ’30 (E.Queen, Van Dine, C.D.King, etc..), i dettagli, i particolari hanno un’importanza rilevante e sono estremamente complessi nella loro spiegazione, e ciascuno concorre per sé alla soluzione finale, in Halter questo non sempre avviene, in quanto la microstruttura del romanzo non gli interessa quanto la macrostruttura: gli interessa il problema in sé per sé e non invece le sue estrinsecazioni.  Se in La Quatriéme Porte la difficoltà presenta un livello di complessità altissimo, quasi di virtuosismo puro, nei tanti altri suoi romanzi, la difficoltà è solo apparente. Non a caso il colpevole, in una storia di Halter, se si è capito come egli la pensa, e quali sono i suoi modi di procedere (che spesso vengono ripetuti nei romanzi), non è arduo da individuare, a differenza che in Carr. Carr ha però la capacità di spiegare fino nei minimi dettagli la soluzione di un certo fatto, anche dopo aver allungato la trama del romanzo. E in questo si differenzia da altri romanzieri a lui coevi. Per es. da Talbot, che in Rim of the Pit crea una somma di situazioni impossibili a tal punto da far fatica poi, nella soluzione finale, a spiegarle realisticamente, arrampicandosi spesso sugli specchi. Ecco perché Halter, a mio modo di vedere assai intelligentemente, sapendo di non stare sullo stesso livello di Carr, non cerca di emularlo fallendo nel tentativo, ma a sua differenza e di altri romanzieri spaccacervelli (E.Queen soprattutto), crea degli edifici narrativi molto affascinanti, ma semplici da spiegare, perché privi di complessità effettive e astrusità (tranne che in qualche opera delle prime): la cosa si traduce anche nella lunghezza dei suoi romanzi, che spesso si attesta sulle 200 pagine o anche meno, a differenza dei romanzi carriani.

Nel romanzo vi sono tuttavia anche altre cose interessanti, che attengono alle citazioni presentate. Per esempio quella all’inizio del capitolo 8, a pag. 37, ci presenta Frank, in una squallida camera d’albergo, che si rivolge alla sua amante Nathalie e le dice:

“Couvrez ce sein que je ne saurais voir” .

Il periodo completo sarebbe : Couvrez ce sein que je ne saurais voir. Par de pareils objets les âmes sont blessées, et cela fait venir de coupables pensées.” (Tartufo, atto  III, scena II, versi 860-862). Cioè : “ Copritevi questo seno affinché io non lo veda. Da tali cose le anime son ferite, e questo fa venire dei pensieri peccaminosi”. I due (Nathalie e Frank) sono amanti e la nudità di lei è il prologo ad un amplesso. Tuttavia egli si rivolge a lei, citanso un passo dal Tartufo di Moliére: Tartufo vuole sedurre Elmira, con le sue massime moraleggianti, espresse in maniera che, neanche troppo velatamente, ella capisca però come lui voglia possederla. In sostanza, l’avance di Tartufo/Frank è l’anima dell’ipocrisia, della duplicità, della dicotomia tra essere ed apparire: infatti anche Frank, come Tartufo, è un ipocrita, che si manifesta in un certo modo per conquistare il prossimo, cioè le attricette e le soubrette in cerca di successo (come Nathalie).

Tuttavia il passo, per me, potrebbe rappresentare l’anima di tutto il romanzo, e non sarebbe affatto casuale che Paul l’avesse inserito: un romanzo sulla doppiezza e sulla falsità. Infatti se si analizza il comportamento dei vari personaggi del romanzo, si vedrà che parecchi fra essi, è come se recitassero una parte, e quindi in sostanza sono degli ipocriti: falsa è Nathalie, falso è Frank, falso è Nigel, falsa è Helen, falso è Victor, falsa è Annie, e potrebbe essere anche falso (anche se ha tutte le ragioni per esserlo) Basil. E posto prima dell’omicidio di Nigel e dopo la scomparsa delle ragazze, l’avance è come se suggerisse al lettore di diffidare di tutto quello che Paul Halter dice attraverso i suoi personaggi (in un certo senso anche egli sarebbe doppio).

Insomma..un altro bellissimo romanzo di Paul Halter.

Pietro De Palma

giovedì 1 settembre 2016

John Dickson Carr : La sedia di re Artù (King Arthur’s Chair, 1957) - trad. M. Boncompagni - Speciale del Giallo Mondadori n.52, 2007

Già pubblicato sul  Blog del Giallo Mondadori


Tengo a precisare che l’articolo contiene degli SPOILER, che potrebbero rivelare parti determinanti per lo sviluppo del racconto.



Pubblicato per la prima volta nell’Agosto del 1957, nella rivista Lilliput, a firma Carter Dickson (pur avendo come personaggio principale Gideon Fell), il racconto King Arthur’s Chair, ebbe anche un altro titolo : Death by Invisible Hands, utilizzato per l’edizione americana. Apparve infatti sull’ Ellery Queen Mystery Magazine dell’Aprile 1958, e la stessa illustrazione per la copertina vi fu improntata.
E’ uno straordinario racconto “dark”, in cui il tema del doppio fa capolino ovunque, pieno di simboli e significati metaforici, connessi con alcuni dei “sette peccati capitali”, un racconto che amo particolarmente. Oltretutto, il lavoro è una delle tante variazioni di Carr sulla Camera Chiusa, ed in particolare sulla variazione della spiaggia: un delitto viene commesso su una spiaggia, senza che vi siano le impronte dell’assassino, ma solo quelle della vittima. Carr scrisse altre opere utilizzando questa sottospecie di ambientazione: ricordiamo per esempio una delle sue opere maggiori, e ancor oggi poco conosciuta che è The Witch of the Low Tide, “Un Colpo di pistola”, romanzo di poco successivo (1961) al periodo del racconto.
Qui il problema è particolarmente complesso, ma la soluzione che viene proposta è straordinaria: direi che è uno dei migliori racconti di Carr, proprio per la soluzione ineccepibile, ma anche per la struttura del racconto, quantomai interessante.
Innanzitutto la storia.
Dan Fraser, è innamorato di Brenda Ray. Lei gli ha dato appuntamento alla sua villa sul mare, dove abita assieme alla cugina povera, Joyce Ray. E’ però un tempo pessimo per vedersi. E’ una sera calda, quella in cui lui la rivedrà. Calda e afosa. Le nubi gravano e ogni tanto un fulmine squarcia l’oscurità, illuminando la notte ed il mare. Dan deve affrontare una discesa per nulla agevole con la sua auto, prima di arrivare alla casa. Tuttavia, stranamente la trova al buio.
E’ una casa ricca di decorazioni, com’è nella natura di Brenda, che lei chiama “la casa del re”. Ma, diversamente da come Dan si aspetterebbe, è immersa nel buio: il buio della notte ed il buio causato dalle luci che le finestre dovrebbero irradiare tutt’attorno, che invece non vede. Lasciata l’auto, si accorge che le tende sono tirate del tutto. L’atmosfera, gravida di elettricità (i fulmini) e oscuri presentimenti, convince Dan che c’è qualcosa che non va. La villa sembra disabitata. Sembra, perché quando lui si affretta in direzione della porta d’entrata, si accorge che è chiusa, ma non a chiave, e quando la apre, si vede inondato dalla luce, che si spande dall’interno.
Neanche il tempo per riflettere ed una porta si apre: una figura femminile si staglia. Non è Brenda, ma sua cugina Joyce. I loro sguardi si incrociano. E’ come se dialogassero, come se confessassero l’un l’altro i propri desideri più segreti, è come se parlassero una lingua che mai fino a quel momento avevano scandito. Fatto sta che capiscono, in un solo istante che si sono sempre amati. O meglio, Dan capisce che l’ha sempre amata, e che quella per Brenda era solo un’infatuazione, Joyce, l’ha sempre saputo. Dan si aspetterebbe di trovare Brenda. Vorrebbe a questo punto incontrarla, ma non per passare con lei una notte infuocata, quanto, per una sorta di correttezza morale, confessarle che ha capito di non amarla e che invece ama la cugina povera. Ma Brenda non c’è. Perché è morta. L’hanno trovata la mattina. Ora la casa è illuminata, perché tutti sono andati via da poco: il cadavere, il medico legale, la polizia, l’ispettore Tregellis, il grande detective amico della Polizia, Gideon Fell.
La situazione è cambiata: ora Joyce non è più povera, ma ricca. E soprattutto ora Dan è libero di amarla; e non devono neanche rendere conto a Brenda, lui e Joyce. Tuttavia Dan pensa che Brenda sia morta, affogata, dopo una nuotata.


No – disse Joyce. – E’ stata strangolata.
Strangolata?” (John Dickson Carr : King Arthur’s Chair (1956) – “Mani Invisibili” – Trad. Mauro Boncompagni – Gli Speciali del Giallo, N. 52 del 2007, Mondadori, pag. 429).
Strangolata, significa assassinata, non più solamente morta. Se qualche minuto prima la situazione per Dan e Brenda pareva essersi miracolosamente risolta, ora essa ritorna intricata, molto più di quanto si potrebbe pensare. Assassinata significa uccisa da un assassino. E la polizia su chi concentrerà la propria attenzione? Su chi quella mattina avrebbe potuto avere l’occasione (e allora avrebbe vagliato gli alibi) ma anche le ragioni di farlo (il movente). E doveva essere un movente valido per uccidere.
Nella villa oltre che Joyce, e naturalmente Brenda, sono presenti altri due soggetti, amici delle due cugine: Toby Curtis e Edmund Ireton. Ma chi quella mattina avrebbe avuto l’occasione e un motivo più che valido per uccidere, sarebbe stata proprio Joyce: l’invidia del patrimonio, e la gelosia nei confronti della sorella, per Dan.. Due moventi più che validi per assassinare. Ecco perché Joyce cerca di far comprendere a Dan che la dichiarazione d’amore avrebbe dovuto fargliela tempo prima, ma non in quel momento. Perché fornirebbe alla polizia immediatamente la certezza che la cugina povera, cioè lei, abbia avuto a che fare nell’eliminazione fisica della cugina ricca.
– Qualsiasi cosa dovessi dirmi,o pensassi di dovermi dire…
– Su.. di noi ?
– Su tutto! Ti rendi conto che devi dimenticarla e non accennarne mai più? Mai più!” (op. cit. pag. 431).
Però, c’è un problema cui la polizia sta dedicando la sua attenzione, pare. Che concerne il modus agendi dell’assassino. E’ noto che Brenda, quando si recava a nuotare, portava una sciarpa annodata al collo ed un copricostume, sopra il costume da bagno; poi il copricostume e la sciarpa li abbandonava su The King Arthur’s Chair, sul “Trono di Re Artù”, uno scoglio a forma di sedia che era vicino al mare: si sedeva, fumava e poi andava a fare il bagno. Tuttavia non si riesce a capire come l’assassino abbia potuto strangolare Brenda: se l’assassino l’avesse strangolata alle sue spalle, lei poi sarebbe caduta faccia in avanti. Ma così non è: Brenda è stata trovata nella sabbia. E del resto nessuno può averla affrontata, dalla parte del mare, emergendo dall’acqua, perché sulla sabbia del bagnasciuga, si sarebbero dovute ritrovare delle orme, che invece non ci sono. E che Brenda sia stata strangolata, lo prova la sciarpa che aveva intorno al collo oltre al copricostume: mentre il primo è stato abbandonato, la seconda è penetrata così a fondo nella pelle, che quelli della polizia non sono riusciti a rimuoverla.
Oltre a questo, c’è il problema della individuazione del possibile colpevole: nessuno avrebbe potuto ucciderla. Ireton, era appena arrivato; Curtis stava facendo del tiro a segno con un fucile cal. 22 sul retro della casa; e la stessa Joyce, per sua stessa ammissione, era in casa. Tutti e tre sono usciti e l’hanno vista: e nello spazio di sei metri sulla sabbia, non c’erano orme.
Detto così, il problema è insolubile. La polizia brancola nel buio, anzi è meglio dire, brancolerebbe se…non ci fosse Gideon Fell, casualmente in vacanza da quelle parti, in Cornovaglia, e arrivato accompagnato dalla polizia.
Gideon Fell ragiona e suppone quello che sarebbe potuto accadere. Innanzitutto elimina il problema delle orme: se non ci sono, significa che non ci sono mai state. Quindi l’assassino o l’assassina (nel caso sia stata Joyce, o una delle due cameriere, che però non avrebbero avuto alcun motivo ad uccidere chi forniva loro un lavoro) non ha mai percorso il tratto di sabbia. E allora? Come ha potuto materialmente strangolarla? Volando?
No. Non si è mai mosso materialmente dalla casa.
Questa è la soluzione sorprendente di Carr: l’omicida non ha lasciato orme, perché non ha ucciso la vittima strangolandola, ma usando qualcosa che simulasse lo strangolamento, e fosse anche estremamente rapido.
Partendo da questo presupposto, Fell ricostruisce, interrogando i presenti, le loro mosse.
E individua l’omicida. Inchiodandolo alle proprie responsabilità.
Ma prima che ciò possa accadere, a dare la misura del dramma è un altro personaggio, quasi un altro detective. Mentre Fell è il detective che vede la natura materiale del peccato, Ireton qui è il detective che ne mette in rilievo la natura spirituale. Ireton è la coscienza, la voce di Carr.
– Il salmista ci dice – attaccò seriamente – che tutto è vanità. Qualcuno di voi ha mai notato..e che Dio mi perdoni se lo dico..che il tratto più sorprendente di Brenda era la sua vanità?…
Una vanità spaventosa. Se qualcuno avesse tentato di grattare quella vanità abbastanza in profondo, la nostra cara Brenda avrebbe commesso un omicidio.
Non è che sta considerando la situazione a rovescio? – chiese Dan. – Brenda non ha commesso nessun omicidio. Anzi, è stata Brenda…
Ah! – esclamò il signor Ireton. – E in questo ci potrebbe essere una lezione, non crede?
Senta, non vorrà mica dire che si è strangolata da sola con la sua stessa sciarpa, eh?
No, ma mi ascolti bene. La nostra Brenda, indubbiamente, aveva molte passioni e molte fantasie. Ma c’era solo un uomo che lei amava e voleva sposare. E non era il signor Dan Fraser.
Allora chi era? – chiese Toby.
Lei.
Lo stupore di Toby era troppo genuino per essere stato simulato…
Che il cielo mi aiuti! – disse – ma io non lo sapevo! Non mi sarei mai immaginato…” (op. cit. pag. 432). Più in là in un dialogo innocente, parlando di una persona, individua l’arma dell’omicidio, senza che se ne sia ancora fatta menzione (op. cit. pag. 434). Ma lo fa senza coscienza, quasi che parlasse non per sua volontà, ma che fosse espressione della volontà divina. E’ come la Sibilla che parla non per volontà propria ma del dio che la possiede, descrivendo esattamente quello che è avvenuto.
Sarebbe potuta essere una commedia degli equivoci, se non fosse finita in dramma: lei ama lui, lui ama lei ma non sa di essere amato, anzi pensa che lei ami un altro, che è innamorato di lei a parole, ma in realtà ama un’altra. E poi c’è un assassino che strangola non avvicinandosi, ma usando uno strumento fantomatico. Insomma, un gran casino. Ma se vediamo bene, casino proprio non è, appare semmai.
Il racconto, a parere mio, più che un “giallo” è un “nero”, un racconto che se non sapessimo essere della seconda metà degli anni ’50, si sarebbe tentati dal ritenerlo un’opera scritta nei primi anni ’30, magari sotto l’influsso di Bencolin. E’ un manifesto etico, pieno di significati simbolici, quasi una condanna dell’eccessivo fasto, del il trionfo dell’apparenza, del narcisismo: in altre parole una condanna della Vanità.
Questa sorta di manifesto metaforico, io direi si strutturi su almeno “quattro piani mistificatori”: la mistificazione è presente in varie espressioni, che vanno dalla personalità dell’assassino e dell’assassinata, a quelle degli altri attori del dramma, alle stesse manifestazioni poste in essere, tra cui il piano omicida.
Il primo potrebbe essere la mistificazione dei sentimenti: Brenda ama Toby, così come Toby ama Brenda. Ma entrambi sono permalosi e vanitosi: nessuno dei due vuole abbassare la testa per confessare di essere innamorato dell’altro, e quindi simulano indifferenza, quando non arrivano a punzecchiarsi vicendevolmente. E così facendo entrambi ignorano di essere amati, l’uno dall’altro. E’ un amore che non si dona, ma che si nutre di se stesso e quindi destinato a contorcersi. Per es. Toby non sa di essere amato, ma a sua volta la ama, disperatamente struggendosi per l’amore che ella dimostra per Dan. A sua volta, Dan, credendo di aver fatto colpo su una donna bellissima, si convince di esserne innamorato, mentre è solo veramente innamorato di Joyce, il cui amore lui trasferisce su Brenda. E nel mentre, Joyce lo ama.
Il secondo piano mistificatorio è attinente alla psicologia dell’omicida: egli spiega agli astanti, sostituendosi al detective di turno, come l’assassino non possa essersi avvicinato alla vittima: né dal mare, “perché il punto più elevato dell’alta marea, dove l’acqua avrebbe potuto cancellare le orme, si trova a più di sei metri davanti alla sedia”; né alle spalle, perché “dal lastricato della terrazza alla parte posteriore della sedia ci sono almeno sei metri”; né spiccando un salto, perché “un campione olimpico in buona forma forse ci sarebbe riuscito, se avesse avuto un punto per prendere la rincorsa ed un punto per atterrare. Ma le cose non stavano così. Non c’era nessun segno sulla sabbia” (op. cit. pagg. 434.435). E così facendo dimostra come l’assassinio non possa essere spiegato: senza arma, e senza la possibilità di dimostrare l’assassinio, il caso non può che essere archiviato. Ma a questo punto appare il deus ex machina, che fino a quel momento non è stato presente, Gideon Fell, che risolve l’enigma.
Il terzo piano, riguarda lo strumento usato per uccidere, utilizzato come arma per uccidere.
Di per sé non è un’arma per uccidere: lo diventa solo se viene utilizzata in un certo modo. Ed è stato proprio il modo di usare lo strumento a causare la situazione impossibile.
Del resto quest’arma produce un suono caratteristico che può essere facilmente confuso con un altro. E la mistificazione riguarda appunto l’uso di questi due strumenti in maniera tale che l’uso di uno mistifichi l’uso dell’altro.
Il quarto ed ultimo piano, concerne la mistificazione dei sospetti che possono essere solo Joyce Ray, poi Edmund Ireton, infine Toby Curtis.
Joyce è la prima ad essere sospettata per la ricchezza acquisita in seguito alla morte della cugina. Poi c’è Edmund Ireton ( che a suo dire vuole proteggere Joyce): egli ha consigliato Dan di non far parola a nessuno del sentimento reciproco che hanno scoperto di sentire vicendevolmente, pena la possibile accusa di omicidio rivolta a Joyce. Tuttavia l’amico Toby Curtis (strano che si chiami come Tony Curtis che megli anni ’50 fu famosissimo come attore!) gli rinfaccia di aver usato un modo di fare, diretto a far accusare direttamente Joyce invece di proteggerla: perchè invece di ammonire in separata sede Dan a non dire in giro che era innamorato di lei e lei di lui, gliel’ha gridato in maniera tale che tutti nella casa ne fossero, volenti o nolenti, a conoscenza? In realtà non vi è un sospetto, ma due. Anzi tre, perché Fell comincerà a parlare del fucile. Già perché è il fucile cal. 22 l’arma usata per mistificare il suono dello strumento usato invece per uccidere Brenda. Chi possedeva il fucile e si era esercitato per la mattinata? Toby. Quindi anche lui è sospettato. Anche se qualcun altro potrebbe averlo usato in sua assenza.
Il racconto può avere però anche un’altra lettura: accanto ai quattro piani su cui si struttura la storia, io in questo racconto, vedo molte manifestazioni del doppio: alcune possono essere casuali, altre no, e comunque i doppi connessi alla personalità dell’omicida, della vittima, dell’arma, e di alcune situazioni del racconto, fanno riferimento ad un oggetto presente a profusione nella casa. E l’individuazione della natura doppia di tanti oggetti, situazioni, soggetti, usati simbolicamente, è da mettere a parer mio in riferimento alla “morale” del racconto. Mi spiego.
Innanzitutto doppia è l’atmosfera che accoglie Dan : il buio che avvolge la casa sulla spiaggia, il lampo che squarcia l’oscurità e illumina fugacemente la scena del delitto, mentre dentro tutto è illuminato, può essere una metafora: il buio dell’indagine viene squarciato da qualche supposizione che qua e là comincia a diradare le tenebre, fino ad arrivare alla luce della soluzione. Ma è anche il buio, le tenebre (il male) contrapposto alla luce (il bene). Fuori della casa il male ha portato ad un omicidio, ma sarà nella casa che Fell svelerà il movente e come sia stata uccisa Brenda. E da chi.
Doppia è la natura dei sentimenti delle persone che vivono in quella casa: carnefice e vittima, si contrappongono e si confondono, tanto che alla fine l’assassino non si dimostrerà che la vittima di Brenda, quando non di se stesso. Ma doppie sono anche le personalità di chi si muove: Ireton è colpevole o innocente? Amico o nemico? Toby è innocente o colpevole? Giudice o reo? Dan è davvero estraneo alla vicenda o vi è coinvolto? Joyce è davvero innocente o è un’assassina astuta?
Doppia è la possibilità di come l’omicidio sia stato perpetrato: l’assassino era davanti oppure dietro la vittima?
Doppia è la natura dell’amato e dell’amante, di chi ama e di chi viene amato.
Ma doppio è anche il significato dell’uso di un’arma, che non è solo quello che appare ma anche altro: un fucile, cal. 22, con cui Toby faceva il tirassegno. Il fucile ha una natura doppia: spara ma anche mistifica il rumore che produce, cosicché si pensi che anche quando si sente un certo rumore esso venga associato allo sparo mentre non lo è.
Due sono le cameriere presenti in casa.
Due sono le cugine: una povera, l’altra ricca.
La presenza di due cugine, una povera, una ricca, tra l’altro mi da modo di evidenziare una curiosità: nel 1940, di Norah Lofts (pseudonimo, Peter Curtis) fu pubblicato il primo di quattro romanzi, Dead March in Three Keys (che con il titolo “Marcia Mortale in Tre Tempi”, fu pubblicato nel 1950, in Italia, dalla Casa Editrice Aldo Martello, nella serie “I Gialli del Veliero”). Si tratta di un bel romanzo, che potrebbe essere proposto ancor oggi, un thriller, in cui il lettore vede pianificato un omicidio per interesse. Gli attori di questo dramma sono tre: due cugine, Antonia ed Eloisa, la prima povera ma molto estroversa con gli uomini, la seconda ricchissima ma estremamente chiusa; e Riccardo, l’amante di Antonia, povero anche lui, che per calcolo sposa Eloisa, tradendola di continuo con Antonia, finchè…
A me interessa sottolineare solo come Carr potesse aver letto il romanzo, che ottenne un robusto successo nei primi anni ‘40, e avesse potuto trarre l’idea di due cugine di censo completamente diverso, che contendono l’amore ad un uomo, che anche qui è veramente innamorato della povera e solo apparentemente della ricca. Però qui la situazione è opposta: quella estroversa è quella ricca, e timida è invece la povera, che però avrebbe comunque le ragioni per uccidere, ma che invece, in ragione proprio della propria umiltà, non sembrerebbe vi pensi affatto.
Due ancora sono i carnefici e le vittime di questo racconto: sempre loro, Brenda e l’omicida. Nel mentre Brenda ne è la vittima, dell’assassino è anche il carnefice, perché è lei che lo ha spinto ad ucciderla.
E cosa è ancora doppia? La vanità : la vanità di Brenda e la vanità di Toby. Ma anche la La Vanità che non ha consentito loro di essere felici. Del resto si potrebbe pensare sin dall’inizio che gli unici soggetti vanitosi in questo piccolo dramma siano Brenda e Toby. In realtà, anche Ireton potrebbe essere vanitoso. E’ rappresentato vestito in maniera ricercata, da snob. Con sul viso l’espressione bonaria di un satiro, quando non beffarda. Dice di essere stato uno zio putativo di entrambe le cugine: ma che era in realtà? Era solo un amico discreto o amava qualcuna delle due?
E sicuramente lo è Dan. Ma la vanità di Dan non è quella di Brenda: Dan crede di essere affascinante, non perché egli ci creda in fondo, ma perché la stessa Brenda gliel’ha fatto credere, irretendolo. La vanità di Brenda è diversa: ella crede davvero di essere affascinante e superiore agli altri. E’ la Femme Fatal, e come tutte le femmine fatali ha un destino amaro. Nel MedioEvo la sua vanità, che è anche superbia, sarebbe stata condannata senza appello, e lei probabilmente sarebbe stata punita duramente. Perché la Vanità (assieme alla Superbia) era connessa col Male. Vanitas Vanitatum. Uno dei sette peccati capitali.
E’ la vanità il movente dell’assassinio, uno strano movente, in verità. Non c’è odio, avarizia o cupidigia, ma vanità. Che è prodotta dall’eccessivo narcisismo, dall’eccessivo innamoramento di se stesso, della protezione della propria più intima natura, che non dev’essere per nulla svelata, perché da ciò vi sarebbe un indebolimento della propria personalità. Per una volta tanto, vediamo come l’assassinio non sia il prodotto dell’odio, ma dell’amore, anche se non rivolto ad altri ma a se stessi. Anche l’amore qui è doppio: amore di se stesso, ma anche amore dell’altro. Se non ci fosse stato l’amore verso un altro, non si avrebbe avuto paura di essere deriso e messo a nudo. Narcisismo, e Vanità. L’opposto dell’umiltà, che sembrerebbe essere il connotato di Joyce, invece.
L’assassino è quindi un debole, che, deriso per la propria debolezza, cioè dell’amore che prova, uccide. Se fosse stato forte, non avrebbe avuto paura della propria debolezza. Lui però non lo è. Deve simulare all’esterno di non essere debole, ma lo è, e proprio questa sua doppiezza nell’animo è la causa del suo reato, del peccato mortale.
L’apparenza che è commessa alla vanità, al bello, a ciò che si vede, è già messa in evidenza
all’inizio del racconto quando si dice che la casa sul mare veniva chiamata “la casa del re”, per via di tutte le decorazioni che Brenda aveva voluto che l’abbellissero, esternamente e internamente.
Ma l’apparenza e la vanità sono rappresentate da un oggetto, che si trova all’interno della casa, di cui, come abbiamo detto prima, vi è profusione, e che ha un forte valore simbolico: lo specchio.
Brenda era vanitosa, ed in quanto innamorata di se stessa, aveva bisogno dello specchio. Degli specchi. Che erano numerosi in casa.
Ed è in ragione dello specchio che il racconto, talora, è così costruito sui doppi.
Il doppio è da mettere in diretta relazione con lo specchio: lo specchio infatti riflette una visione, creando il suo doppio. I due doppi, solo apparentemente sembrerebbero essere uguali, mentre sono antitetici, vicendevolmente. Il doppio è l’opposto, l’anima nascosta, la parte nascosta di noi. Anticamente si pensava che gli specchi, duplicando la realtà, avrebbero potuto imprigionare l’anima nell’immagine riflessa dallo specchio. Ecco perché alcuni coprivano gli specchi alla morte di qualcuno per permettergli di raggiungere l’oltretomba.
Ma lo specchio genera un’immagine di sé, permette di vedere la propria bellezza. Che può essere positiva o negativa. Quando è negativa, è legata al narcisismo e all’attaccamento dei beni terreni. Come tale, questa visione della vita, e quindi di se stessi, rimanda al Male, e ai due peccati capitali cui si ricollega: Vanità e Superbia. Tanto che nella Firenze del 1497, con il Rogo delle Vanità, durante il Martedì Grasso, i seguaci di Girolamo Savonarola bruciarono gli specchi.
Ecco allora già due simboli chiave del racconto: lo specchio ed il doppio che viene generato da esso e in esso.
Ma c’è un altro simbolo: è l’arma usata per uccidere.
“ – Il vero strumento? E quale sarebbe questo rumore?
Lo schiocco di una frusta di pelle di serpente – rispose il dottor Fell”( op. cit. pag. 441).
Non è il fucile, che è servito solo a distogliere l’attenzione, illudendo i presenti che il rumore sentito fosse uno sparo, mentre invece era il rumore di una frusta. Ma è una frusta di pelle di serpente. Una frusta da mandriano. Che usata abilmente è stata avvolta al collo di Brenda, mentre era ancora seduta sul Trono di Re Artù con il collo avvolto da una sciarpa. Del resto la sciarpa era essenziale alla messinscena: se non ci fosse stata, si sarebbe visto sul collo il segno della frusta. Appoggiata alla curva della roccia dietro il sedile, la frusta, tirata verso l’omicida, l’aveva soffocata in pochi secondi. Poi, dovendo svolgerla dal collo, l’omicida aveva dovuto dare uno scatto verso l’alto, che aveva sollevato Brenda e l’aveva lasciato cadere nella sabbia, creando la situazione impossibile.
Il terzo simbolo non è però la frusta in sé, ma il materiale di cui è fatta: la pelle di serpente.
Non è stato il serpente, il male, Satana sotto mentite spoglie, a suggerire alla donna che era nuda? Eva molto spesso è ritratta col pomo, ma anche con lo specchio: superbia e vanità, sono spesso associati. Come in questo caso, perché vittima e carnefice sono espressione di debolezza: superbi e vanitosi.
Nell’ultima scena, tutti e tre i simboli sono presenti.
Fell inchioda l’assassino, che è ritratto mentre si specchia, e man mano che indietreggia si trova con le spalle vicino ad un altro specchio. E gli specchi sono dovunque:
L’Ispettore Tregellis era riflesso dappertutto negli specchi, con la lunga frusta arrotolata sopra il braccio” (op. cit. pag 444);
lo specchio è come se ci rimandasse la faccia non evidente dell’assassino, quella che Fell mette in luce, la sua anima votata al male, il suo doppio:
Guardatelo, tutti quanti! – disse il dottor Fell. – Persino quando viene accusato di omicidio, non riesce a togliere lo sguardo da uno specchio” (op. cit. pag. 443);
a conclusione dell’arringa di Fell, arriva l’Ispettore Tregellis che brandisce la frusta.
Ma più che una frusta sembrava che stesse portando una corda..la corda del capestro” (op. cit. pag. 444).
La frusta che è formata da pelle di serpente.
In sostanza l’assassino è inchiodato alle sue responsabilità, ed è come se il serpente, il male del peccato originale, che aveva instillato nell’uomo la superbia e la vanità, ora reclamasse il suo prezzo: la morte e la dannazione, per chi lo ha scelto consapevolmente, mediante l’impiccagione.
Ma la vera condanna dell’assassino non si avrebbe senza un colpo di scena. La ricostruzione di Fell è perfetta, ma così raccontata in un’aula di un tribunale non avrebbe nessuna ragion di essere accettata, perché vi sono indizi, c’è l’arma dell’omicidio, c’è la presunzione che essa possa esser stata usata dall’assassino medesimo (che è un ricco possidente in Sudafrica, dove si usa il tipo di frusta rinvenuto), ma parrebbe che non ci fosse alcun testimone presente. Ed invece..
Invece la Provvidenza divina, il fato, la Giustizia divina, chiamatela come volete, che non può permettere che un assassino, che ha ucciso con l’aggravante diremmo noi “dei futili motivi”, cioè per cattiveria, vada impunito, si materializza ancora una volta in un racconto di Carr.
E’ rappresentato da una delle due cameriere, Sonia, infatuata dall’omicida. E’ come se qualcosa di sovrumano, che sfugge all’umano raziocinio, alla pianificazione di un delitto perfetto, si inserisse, una piuma che fa inceppare un ingranaggio ritenuto inceppabile, messo in moto inconsapevolmente ed inconsciamente da quello stesso vizio, la vanità, che è stata alla base dell’omicidio. Il desiderio di essere belli a tutti i costi, produce infatuazione in quelle donne che sono soggette a questo tipo di fascino esteriore. Una di queste è Sonia.
“…Vi avevo anche avvisato di aver interrogato le cameriere, Sonia e Dolly, le quali oggi avevano fornito solo risposte incoerenti. Mio caro signore, lei sottovaluta il suo fascino personale.
Sembra che Sonia..abbia sviluppato una certa simpatia per lei. Quando stamattina ha sentito quell’ultimo “colpo” isolato, ha guardato di nuovo fuori dalla finestra. Ma lei non c’era…E questo l’ha colpita talmente che è corsa fuori sulla terrazza anteriore e si è accorta che lei era lì. L’ha vista, insomma.” (op. cit. pag.443).
E’ come se Carr emettesse un giudizio di massima, ancora una volta: il male non paga mai.

Pietro De Palma