domenica 30 ottobre 2016

J.J. Connington – Un cadavere fuori posto (In Whose Dim Shadow, 1935) – trad. Marilena Caselli – I Classici del Giallo Mondadori, N° 1121 del 2006.

 Connington fu un autore che cominciò a scrivere romanzi polizieschi, come svago: c’era una voce che diceva che negli anni ’30, parecchi professori leggevano gialli per svago..ma è anche vero che parecchie menti illustri ne scrivevano: Dorothy Sayers, Nicholas Blake, Edmund Crispin, Thomas Kyd, e appunto J.J. Connington, che in realtà si chiamava A.W.Stewart ed era un famosissimo docente di chimica e scienziato: Un cadavere fuori posto, è un romanzo del 1935.
Diciamo subito che il lettore italiano che ha letto i romanzi degli inizi degli anni ’30, potrebbe trovarsi spaesato: quella che è la caratteristica principale di Connington, cioè l’atmosfera (le notti di luna piena, l’oscurità, misteriosi passaggi segreti, per es.) qui non esiste. Il romanzo infatti si presenta come un caratteristico Whodunnit di metà degli anni ’30, un romanzo ad enigma, come tanti di quegli anni, anche se sempre affascinante e costruito assai bene (anche se, ancora una volta, l’assassino è, per il lettore esperto, molto facile da trovare: io l’ho trovato almeno 150 pagine prima della conclusione. C’era una voce che mi diceva che proprio lui doveva essere: ed in effetti non ho sbagliato. Il fatto è che Connington è sempre troppo rispettoso del lettore, e molto spesso dice troppo degli indiziati, quasi ne sbandiera le peculiarità, per cui…ad un certo punto, chi abbia una memoria analitica di quello che abbia letto e che sappia che 2+2 fa sempre 4, non può non capire chi sia l’assassino, per quanto improbabile). In questo caso abbiamo un poliziotto, William Danbury, che è desideroso di mettersi in luce, ma per farlo avrebbe bisogno di qualcosa veramente interessante, che neanche a farlo apposta, gli capita sotto il naso: mentre è di ronda di notte, il signor Geddington che abita al civico Grove N.5, lo prega di intervenire in uno stabile, perché si è sentito uno sparo. Danbury trova, non cercandolo, un bel cadavere caldo caldo, in un appartamento sfitto, dove sono in corso lavori di tinteggiatura delle pareti: nel bel mezzo di una camera è il corpo di un uomo, col volto sfigurato da un colpo di pistola sparato in faccia, in mezzo a una barattolo di vernice rovesciato, macchie di sangue sul pavimento ed un fazzoletto che ne è zuppo, e in una latta di vernice, una croce d’oro a forma di Tau. Inoltre, il cadavere indossa guanti, delle scarpe di gomma e ha in tasca uno sfollagente artigianale ma dall’aria assai efficace. Le indagini si presentano subito difficili. Non c’è apparentemente nessun vero indizio, tanto che persino gli abiti sono privi delle targhette riconoscitive, e nessuno degli inquilini dello stabile, a prima vista lo riconosce. Vi è un giornalista free-lance, invadente e a perenne caccia di scoop, Barbican, che è stato il primo ad accorrere ed il primo ad aiutare l’agente Danbury ed il suo collega a isolare la scena del delitto; c’è l’architetto Barnard; c’è George Mitford, ex impiegato d’ufficio che vive assai modestamente con una piccola rendita, e che sogna i luoghi fiabeschi del Giappone; c’è una coppia che invita sempre persone nel loro appartamento, di estrazione sociale elevata o che almeno vuol far ritenere tale; c’è la signora Sternhall, che di origini francesi dà lezioni della sua lingua originale in casa sua, e suo cognato, un tipo deciso ma dall’aria poco raccomandabile: la donna è sola, perché il marito, è sempre fuori per lavoro, ed al momento del rinvenimento del cadavere, è lontano. Insomma una fauna variegata. A questi tipi se ne aggiungono altri due, che assieme ad alcuni inquilini, sono soliti frequentare casa Sternhall per imparare o affinare il francese: c’è Ambrose Bracknell, un giovane ed aitante predicatore di una setta cristiana, e Miss Huntingdon, una ragazza che ne è innamorata. Fato sta che il cadavere, ricomposto,e soprattutto il viso pulito dal sangue e reso presentabile, fanno sì che il cadavere sia riconosciuto e associato al signor Sternhall che al momento della morte sarebbe dovuto essere lontano, e che invece era vicinissimo a casa sua. Si scoprirà che egli conduceva una doppia vita, perché aveva due mogli: quindi era bigamo. Che aveva licenziato un povero impiegato e lo aveva perseguitato, e che lui stesso era stato perseguitato a sua volta da un ricattatore che conosceva i suoi segreti. Che Bracknell era quello che aveva perso nella colluttazione con Sternhall il ciondolo a forma di Tau, ma non ne era stato lui l’assassino; e che per allontanare da sé i sospetti della polizia non aveva esitato a mettere in mezzo Miss Huntingdon che di lui era infatuata: insomma un bel farabutto! E che la signora Sternhall aveva taciuto molte cose a Sir Clinton Driffield, Capo della Polizia e protagonista dei molti romanzi di Connington. Il cadavere non sarà il solo nel prosieguo del romanzo ma sarà accompagnato da un secondo, quello dell’impiegato (era lui quello che guarda caso era stato licenziato da Sternhall) che impaziente di guadagnare i mille dollari messi come taglia per chi avrebbe rivelato alla polizia dei particolari utili ad acchiappare l’assassino, li sbandiera incautamente facendo riferimento ad una lettera che intende inviare proprio all’attenzione del Capo della Polizia: proprio questa avventatezza gli costerà la morte. L’assassino, che se qualcuno non l’avesse già individuato, si capisce lapallissianamente ora chi possa essere, lo ucciderà simulando un suicidio in una Camera Chiusa. Che verrà invece riconosciuto come omicidio quando intorno al cadavere si riconosceranno due tipi diversi di sangue. Toccherà a Sir Clinton nelle ultime pagine, con l’aiuto del suo amico Wendover (una specie di dottor Watson, ma molto più acuto del compagno di Sherlock Holmes), inchiodare l’assassino (casomai non si fosse ancora capito chi potesse essere) e spiegare i punti oscuri del dramma, anche se le ultime pagine non precedono la rivelazione finale, ma ne sono solo un riassunto ricapitolativo, giacchè l’assassino vien rivelato già a pag. 215 ( ma io l’ho capito già abbastanza presto, sulla base anche di un motivo che ricorre in tutti gli assassini sia di carta che reali) cioè venti pagine prima che viene arrestato. Se il romanzo, nella successione dei titoli di Connington, perde parecchio in atmosfera e acquista nella creazione dell’enigma e nella sua soluzione (ma quella della Camera Chiusa è alquanto criptica), un carattere è riconoscibilissimo, in quanto è un vero e proprio marchio della produzione di Connington: come abbiamo detto J.J.Connington in realtà era un grande scienziato, e in tutti i suoi romanzi, Stewart introdusse una qualche diavoleria elettronica, o una qualche invenzione oppure un qualche espediente che avesse contatti con la fisica o la chimica. In questo romanzo, particolarmente interessante è l’analisi sanguigna dei vasi e degli organi del cadavere, ed il confronto con il sangue trovato sul pavimento, partendo dal presupposto notevole che se fosse stato sangue sgorgato dalla ferita, esso si sarebbe dovuto coagulare tutto negli stessi tempi. Ed invece il fatto che vi sia del sangue coagulato e invece del sangue fresco rinforza l’ipotesi di una manomissione della scena del delitto. Inoltre vi è il dato caratteristico dell’assenza di impronte, ottenuta utilizzando polvere di licopodio. Il licopodio (Lycopodium) è un genere di piante vascolari appartenente alla famiglia delle Lycopodiaceae., abbastanza diffuso in tutto il mondo. Le sue spore, essendo altamente infiammabili, vengono utilizzate per spettacoli pirotecnici e anche circensi. Tuttavia in questo romanzo, A.W.Stewart sfruttò la capacità propria della polvere di licopodio, di essere refrattaria all’acqua, in quanto dotata di grandi proprietà assorbenti, e per questa sua proprietà, specificamente utilizzata nell’industria farmaceutica: siccome il sudore è in percentuale composto da una certa quantità di acqua, ricoperti i polpastrelli di licopodio, essi non avrebbero lasciato impronte digitali. Un’altra caratteristica saliente del romanzo, è che esso comincia senza una introduzione (in uso di altri romanzieri britannici del tempo: Christie, Marsh, Heyer) in cui venga anticipata la genesi del delitto: in questo, il romanzo si avvicina molto a quello che è il romanzo americano. Sostanzialmente, infatti, una delle differenze di struttura del romanzo poliziesco americano, da quello anglosassone per eccellenza, è l’assenza di una introduzione: il romanzo comincia col delitto, e solo allora cominciano le indagini di cui è partecipe il lettore: in altre parole il lettore viene assimilato al detective. Da ciò, verrà originata la tendenza, per esempio in Queen, a indire una tenzone tra scrittore e lettore, con la Sfida al lettore. Invece nel romanzo poliziesco britannico, prima del delitto, vi è una introduzione che introduce il lettore all’ambiente in cui avviene il delitto; cioè in altre parole, il lettore viene assimilato al narratore.
Mi sembra una differenza sostanziale. Perché se in quello britannico, il lettore è avvantaggiato rispetto al detective perché ha assistito ad avvenimenti di cui il detective non sa nulla, e quindi la soluzione finale sarà ancora più una sconfitta del lettore, perché avvenuta per opera di chi non sapeva nulla ed invece è riuscito ad arrivare primo, in quello americano, il lettore è davvero sullo stesso piano del detective, e quindi la tenzone è svolta con pari intensità dalle due parti e c’è davvero la possibilità che il lettore pareggi la capacità del detective di risolvere il problema. Nella sua sostanza, il romanzo sembrebbe un archetipo di un procedural, in quanto, come in tutti i Connington, le indagini sono svolte dalla polizia; tuttavia ad agire è il Capo della Polizia, che si comporta come un vero e proprio investigatore, supportato però da altri organi di polizia. Non è un caso unico: infatti, più o meno negli stessi anni, nasceva nell’altra parte del Globo, dalla penna di Anthony Abbot, un altro investigatore simile: Il Capo della Polizia, Commissario Thatcher Colt. La curiosità è che in questo romanzo vi è una Camera Chiusa, non conosciuta ai più. Scritta nello stesso anno de Le tre bare di Carr , nel 1935, presenta singolarmente parecchi caratteri che la collegano proprio a Carr, direi a The Hollow Man, del 1935; e a The Gilded Man, romanzo di Carter Dickson (John Dickson Carr) con Henry Merrivale, del 1942. Innanzitutto il soggetto: il proprietario di casa che vien trovato mascherato, con guanti di gomma e scarpe di gomma, ed uno sfollagente in tasca; lì il padrone di casa veste i panni di un ladro in casa sua, con tanto di guanti e scarpe di gomma,anche lì non si capisce che ci faccia nel luogo dove viene trovato, e anche lui viene aggredito: la sola differenza è che in quel caso viene ferito gravemente, mentre qui viene ucciso. Anche lì come qui c’è una Camera Chiusa, ma quello che mi interessa far notare è che ancora una volta, a me sembrerebbe che sia stato Carr a prendere a modello Connington, e non viceversa. Le date di pubblicazione sono infatti emblematiche: ma nella sua sostanza, il romanzo differisce molto da altri più classici. Qui la messinscena del delitto avvicina il romanzo molto ai più celebrati Carr (erano già apparsi parecchi romanzi di Carr, con le sue caratteristiche, prima del 1935) : c’è la tipica tendenza ad inscenare una situazione in cui più elementi appaiono bizzarri, in cui ciascuno di essi propone a sua volta un sottomistero che deve’essere spiegato. Interessante mi sembra inoltre la doppia asserzione di Sir Clinton a riguardo delle Camere Chiuse. A pag. 197 afferma: “..Sono sempre un po’ scettico riguardo alle camere chiuse – disse seccamente Sir Clinton – mi sono già venuti in mente sei modi in cui sarebbe stato possibile eseguire il trucchetto di una camera chiusa a chiave dall’interno. Giusto come esercizio intellettuale, sai?” Reitera il concetto a pag.226: “…perché avevo pensato parecchio a quei casi di camera chiusa, giusto per esercitarmi mentalmente”. Si tratta di un altro esempio di introduzione alla Conferenza di Fell di Carr in The Hollow Man, prima che fosse concepita: credo proprio, a questo punto, che si renderà evidente un’ulteriore allargamento della mia Storia delle Dissertazioni sulle Camere Chiuse, pubblicata sul Blog Mondadori.

Pietro De Palma

giovedì 27 ottobre 2016

Peter Lovesey – Il Signore dell’Enigma (Bloodhounds, 1996) – trad. Mauro Boncompagni – Il Giallo Mondadori N. 2532 del 1997, pagg. 362.

Nel panorama contemporaneo degli scrittori di romanzi gialli, specializzati nel genere classico, Peter Lovesey ha un posto di rilievo. Nato a Whitton, nel 1936, Lovesey ha passato varie vicissitudini: nel 1944 la sua casa fu distrutta durante un bombardamento tedesco; aveva la passione dello sport e si dilettò in atletica, ma ben presto capì che non era la sua strada; frequentò l’Università dove conobbe la sua attuale moglie; si dedicò all’insegnamento ma poi vi preferì la carriera di scrittore a tempo pieno. Vive vicino Chichester. Ha firmato col suo vero nominativo tutti i suoi romanzi tranne tre, firmati invece con quello di Petert Lear. Anche suo figlio Phil scrive romanzi polizieschi.
Le sue serie sono incentrate su personaggi come  il sergente Cribb, l’agente Thackeray, Bertie (ossia Alberto, principe di Galles) e Peter Diamond. I suoi romanzi hanno meritato molti premi: nel 1976 con Swing, Swing Together ha vinto il Grand Prix de Littérature Policière; nel 1978 ha vinto il premio Silver Dagger Award con il romanzo Waxwork (bissato nel 1995 con The Summon, e nel 1996 con Bloodhounds); quattro anni dopo ha conquistato l’ambito Gold Dagger Award con il romanzo The False Inspector Dew. Ha vinto anche il Prix du Roman d’Aventures con il romanzo A Case of Spirits, il Premio Macavity  con Bloodhounds (bissato nel 2004 con The house sitter) e con lo stesso romanzo anche il Premio Barry. Ha vinto anche il Premio Cartier Diamond Dagger nel 2004, e il Premio Agatha alla carriera del 2008. Nel 1988, il suo Rough Cider è stato selezionato nella cinquina finale dell’ MWA Edgar Award., cosa ripetutasi nel 1996 con The Summons.
Bloodhounds, tradotto e pubblicato in Italia come “Il Signore dell’Enigma”, è dedicato a John Dickson Carr.
Un gruppo di affezionati lettori di gialli, noti come i Segugi, si riuniscono in una cappella sotterranea della Chiesa dei SS. Michele e Paolo, a Bath. Sono: Milo Motion, Hilda Childmark, Jessica Shaw, Polly Wycherley, Rupert Darby, Sid Towers. A questi, un giorno si unisce anche  Shirley-Ann Miller. Ella si fa subito conoscere per la sua versatilità di conoscenze nel genere e per la sua amabilità. I Segugi sono versati soprattutto al Mystery, mentre in qualche modo aborriscono il resto. Al loro interno, Shirley-Ann riconosce delle dinamiche non certo idilliache, che le fa ben capire come, al di là delle conoscenze simili, gli affiliati al gruppo non siano tutti uniti da sentimenti di salda amicizia: già lo vede quando un giorno Rupert porta il suo cane dabbasso, provocando le ire di alcuni, e soprattutto di Hilda Chilmark, una vecchia erede di famiglia illustre ma caduta in rovina, che però, non memore di ciò, tratta gli altri come fossero una spanna sotto di sé. L’atteggiamento di rifiuto nei confronti di Rupert e del suo cane, si accentua in altra occasione, durante la quale sia Sid Towers che Milo Motion (entrambi patiti di Carr) avrebbero dovuto portare con sé una copia di The Hollow Man, per discuterne nel gruppo, leggendo anche la Conferenza del dottor Fell: in questa occasione, proprio la signora Chilmark ha un attacco di iperventilazione, da cui rinviene per intervento di Jessica Show che dopo aver rimediato un sacchetto di carta, dove Motion teneva la sua copia del Carr, la fornisce alla Chilmark perché questa possa ripristinare la corretta respirazione. Fatto sta che l’incidente fornisce l’occasione di introdurre dentro la copia del romanzo di Carr, di proprietà di Syd Tower, un rarissimo francobollo nero da 1 penny, rubato qualche giorno prima da un museo cittadino, furto che era stato preventivamente annunciato da un messaggio, in forma di quartina, e che aveva allertato la polizia cittadina: lo stesso Peter Diamond, sovrintendente della polizia di Bath, e capo della sezione omicidi, aveva dovuto fornire all’ispettore Wigfull, incaricato di approntare il piano per catturare i ladri e poi, dopo il furto, di recuperare il francobollo trafugato, alcuni suoi uomini, tra cui l’ispettrice Julia Hargreves, suo braccio destro.
Nel momento in cui il francobollo riappare, nel corso della riunione dei Segugi, e dopo l’attacco di iperventilazione di Hilda Chilmark, si insinua il sospetto (anche nel lettore) che uno dei Segugi possa essere stato il ladro del francobollo.
Syd, dopo un confronto con gli altri Segugi, decide di andare al Posto di Polizia, e denunciare il ritrovamento, nel suo libro, che giura di non aver mai lasciato dal momento in cui l’ha preso a bordo della sua barca, dove vive. Fatto sta che Syd, dopo aver denunciato la cosa in più interrogatori, ed esser riuscito a dimostrare la sua estraneità al furto del penny, ritorna alla barca di sua proprietà, in compagnia di John Wigfull, e, dopo aver aperto il lucchetto con cui tiene chiusa la cabina, vi trova morto stecchito Milo Motion: il lucchetto è di tipo speciale, tedesco, con due sole chiavi che possano aprirlo, di cui una è caduta nello specchio d’acqua dove è ancorata la barca più di un anno prima; la cabina non ha altre aperture, se non un’altra porta che è però sprangata dal di dentro da numerosi catenacci; Syd giura che la sola chiave che possa aprire il lucchetto è stata sempre nelle sue mani, e nello stesso tempo si professa innocente. Il prosieguo delle indagini dimostrerà che non è lui l’assassino. Come ha fatto Milo Motion a entrare nella cabina e perché? Come ha fatto qualcuno a ucciderlo e riuscire non solo ad aprire un lucchetto che Syd giura di aver chiuso, ma anche a chiuderlo, stante l’impossibilità materiale che quel lucchetto possa avere altra chiave per aprirlo? E soprattutto, perché è stato ucciso?
La cosa più incredibile è che l’omicidio impossibile sembra essere stato preventivamente annunciato da un’altra quartina, di cui il significato prima incomprensibile viene successivamente messo in relazione proprio al romanzo di Carr. E’ chiaro a questo punto che, se prima qualcuno aveva avanzato l’ipotesi che il ladro sarebbe potuto essere uno dei Segugi, ora deve esserci tra gli stessi anche un omicida, salvo poi che lo stesso ladro non si sia macchiato anche di omicidio.
Varie ipotesi si faranno strada sull’identità del ladro, anche in grado di spiegare l’omicidio, ma alla risoluzione si arriverà solo alla fine del romanzo, dopo che ben due ipotesi circa la soluzione della Camera Chiusa si saranno fatte ammirare (la seconda, quella di Diamond, distruggerà la prima di Wigfull, dopo il ritrovamento, da parte dei sommozzatori della polizia, della prima chiave del lucchetto) per genialità ed estrosità, dopo che un secondo omicidio avrà gettato altra sabbia negli occhi degli inquirenti (verrà ucciso Rupert Darby, personaggio scomodo ed inviso ai più, che qualcuno aveva supposto esser stato l’accusatore di Jessica, all’apertura di una mostra pittorica presso la Galleria di cui lei era proprietaria, per la morte di Milo, e l’autore di un “Je t’accuse” scritto con la vernice bianca su una delle vetrine della galleria); e dopo che qualcuno avrà cominciato a sospettare anche un ricatto al danno di altra appartenente dei Segugi, per una gravidanza scomoda e la nascita di un figlio segreto, sempre gravitante nel gruppo dei Segugi.
Il romanzo non ha neppure un finale scontato, perché ben due finali si susseguiranno serrati: il primo, con due colpevoli quasi sicuri ma troppo annunciati, ed un altro, quello definitivo, con un colpevole per nulla scontato, non lontano dall’azione e nello stesso tempo mai tenuto presente nelle indagini, e riportato sotto le luci dei riflettori, solo dopo la riflessione finale di Diamond.
Romanzo bellissimo e spettacolare, presenta un’incredibile varietà di personaggi ( e quindi di moventi), pur all’interno di una struttura narrativa, già consolidata e affrontata in altri romanzi da altri scrittori: infatti l’associazione cosiddetta di Segugi, formata da lettori e appassionati cultori di gialli, è solo l’ultima in ordine di tempo, tra le tante che l’hanno preceduta: basterà ricordare quella dei Vedovi Neri di Asimov, o quella dei Sette Solutori di Sladek in Invisibile Green, o ancora i tre amici appassionati di gialli, che si affronteranno in Gammal Ost di Ulf Durling. Tuttavia è il caso di ricordare che Lovesey, introduce nel romanzo anche una vena decisamente umoristica, e ironica (basterà ricordare che i Segugi son fatti incontrare in una cappella sotterranea di una chiesa, neanche fossero gli adepti di una setta, nel cui ambito si scontrano rivalità, odii, e vengono perpetrati furti, ricatti e omicidi: una setta satanica, quasi): è come se lo stesso autore ironizzasse su chi il mystery lo prende terribilmente sul serio.
Lovesey però imprime in questo romanzo, un suo marchio riconoscibilissimo: l’omaggio a John Dickson Carr, ricordato dall’inizio alla fine, attraverso accenni, citazioni e conferenze, che hanno come riferimento, il romanzo più ricordato di quello: The Hollow Man, Le tre bare. Questo omaggio non è però solo formale ma anche sostanziale in quanto viene elaborato un doppio enigma da Camera Chiusa: un assassinio in una cabina di una barca, ermeticamente chiusa dall’esterno per mezzo di un lucchetto a prova di ladro, e dall’interno da un’altra porta chiusa per mezzo di un catenaccio; l’apparizione di un francobollo rarissimo, rubato da un museo, in un libro che il possessore giura di non aver mai depositato altrove (e non è lui l’assassino!).
A questo si aggiunge la vena leggera di cui è impregnato il romanzo, l’humour sempre presente, la ridda dei sospetti, le piste vere e false, le invenzioni scoppiettanti che non sono mai definitive ma lasciano sempre una seconda possibilità al ragionamento.
Diversamente da altri autori che tengono alto il ritmo con trovate affini all’action, Lovesey riesce ad attrarre l’attenzione del lettore (che non scema mai fino alla fine) solo con le ripetute trovate. Anzi, il fatto che a venti pagine dalla fine, Lovesey faccia intravedere un possibile sospettabile, non è per me da mettere in relazione con la tendenza di alcuni scrittori di vecchia scuola di utilizzare le ultime pagine, come una sorta di riepilogo che spieghi i fatti precedenti, quanto con il fatto che l’autore stia lanciando un’altra falsa esca, sì che la verità ultima sia ricercata altrove: è il vecchio presupposto di Agatha Christie, in base al quale perché il quadro della situazione possa dirsi risolto in tutto, è necessario che tutte le tessere del mosaico vadano a posto, non forzando in alcun modo il loro inserimento.
L’unica cosa che lascia qua e là interdetti è la spiegazione nascosta di un determinato evento, non comunicata al lettore immediatamente e invece rivelata solo in un secondo momento (gli spruzzi della vernice bianca non solo sul basco di Rupert ma anche sul mantello del pelo del suo cane, che non era stato da lui portato al vernissage della mostra di pittura), anche se si capisce subito la sua portata: tiene alta l’attenzione del lettore spettatore sull’ipostesi contestuale, finchè non viene rivelato il particolare nascosto, che porta ad una soluzione diametralmente diversa, anche se non definitiva per quanto attiene la scoperta dell’assassino.
L’attenzione di Lovesey sulle personalità degli attori del dramma, per di più, non è per nulla relativa: lo dimostra l’influenza che tutti i personaggi hanno nello svolgimento dell’azione narrativa: persino quella che sembrerebbe essere l’unica persona a non poter essere inserita nel gruppo dei sospettabili, perché l’unica ad essere entrata a far parte del gruppo dei Segugi, avrà una parte importantissima seppure indiretta, ed entrerà di prepotenza nella soluzione finale,a nche se non personalmente.
Così nel romanzo, l’andamento dell’azione vedrà l’inizio coincidente nella fine e viceversa.

Pietro De Palma

P.S.
Notizie più dettagliate sull’autore, nel suo sito:
http://peterlovesey.com/about

Noël Windry: Il giudice è in vacanza (Le Piège aux diamants, 1933) – trad. Alberto Tedeschi – G.E.M. n. 167 del 1940

Noel Vindry è una figura storica del romanzo poliziesco francese ad enigma e in particolare delle Camere Chiuse. 
Nato nel 1896 nell’Alta Savoia e morto a Parigi nel 1954, egli, avvocato e poi giudice, giudice istruttore, creò un personaggio in cui trasfondere la propria attività, conferendogli una grande calma, riflessione e capacità di analizzare a fondo un problema; una grande cultura, unita all’amore per la buona cucina; e facendone un gran fumatore di pipa. In sostanza nel giudice Allou si possono tranquillamente notare i caratteri di almeno sei grandi detective, a lui precedenti in quanto ad apparizione (e a me pare evidente che Alan Twist di Halter sia molto vicino, come caratterizzazione del personaggio, ad Allou). Vindry consegnò alle stampe dodici romanzi, con il giudice Allou, tutte Camere Chiuse. Di essi, pochissimi sono stati ristampati in epoca moderna, e sul mercato dell’antiquariato librario e del collezionismo, i Vindry essensdo difficili a trovarsi, sono anche piuttosto costosi. 
Ecco la serie originale:
  • La Maison qui tue, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1931
  • Le Loup du Grand-Aboy, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1932
  • La Fuite des morts, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1933
  • Le Piège aux diamants, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1933
  • Le Fantôme de midi, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1934
  • La Bête hurlante, Gallimard, 1934
  • L’Armoire aux poisons, Gallimard, 1934
  • Le Collier de sang, Gallimard, 1934
  • Le Cri des mouettes, Gallimard, 1934
  • Le Double Alibi, Gallimard, 1934
  • Masques noirs, Gallimard, 1935
  • À travers les murailles, Gallimard, 1937
  • Les Verres noirs, Gallimard, « Le Scarabée d’Or » no 16, 1938
Di Noel Vindry, sono stati pubblicati solo tre romanzi in Italia, due in libro (La Maison qui tue e Le Piège aux diamants ) ed uno sotto forma di romanzo a puntate su rivista (Les Verres noirs).
E’ bene subito dire che l’edizione GEM, tradotta da Alberto Tedeschi, direttore e alla bisogna anche traduttore, fu massacrata. Perché ? L’interrogativo non riguarda tanto la sostanza, perché i GEM erano pubblicazioni popolari, estremamente ridotte, rispetto alle più lussuose e sovra-copertinate Palmine, romanzi che venivano opportunamente tagliati nelle traduzioni e presentati in paperback. L’interrogativo che mi pongo, che pongo e che rimarrà purtroppo senza risposta, è perché mai proprio un romanzo di Vindry, l’unico poi di cui Mondadori avesse acquisito i diritti, venne sottoposto a questa infame tosura e quindi non pubblicato integralmente nelle Palmine ed invece lo furono altri romanzi, per esempio i due di Marquand, con Mr. Moto, certamente meno importanti? Io penso per una ragione. Tedeschi non amava Carr, e non amava i francesi. Aveva pubblicato uno dei capolavori di Very nelle Palmine, e uno Steeman. Ma pur essendo due Camere Chiuse, gli autori erano più conosciuti in Italia rispetto a Vindry. Persino i due Marquand avrebbero potuto, immagino io, nelle aspirazioni di Tedeschi, che gestiva con poteri assoluti quasi la collana, rendere di più, perché Mr. Moto è affine a Charlie Chan, è un detective asiatico, e come tale avrebbe potuto far ricordare al lettore attento il protagonista dei romanzi di Biggers. Fatto sta che proprio per il taglio importante del romanzo e per aver fatto più un lavoro di collage che non di vera traduzione, il romanzo è molto difficilmente leggibile e non ha un grande respiro. Però il fascino dell’atmosfera rimane tutta, perché è il tema del romanzo che le dona un fascino tutto suo.
E’ bene anticipare qui anche che il protagonista non è tanto  il Giudice Allou, protagonista dei dodici romanzi di Vindry, quanto il suo collega Dampierre, incaricato delle indagini. Allou, compare in un secondo tempo, come accade nel primo romanzo di Carter Dickson con H.M., e diventa quindi il “deus ex-machina” della ricostruzione e della soluzione finale.
Gli attori principali del dramma sono i tre soci delle “Gallerie del Porto”: Flavio Dancour, suo fratello Paul e André Caroux. Il padrone originario è Flavio che però ben presto, accortosi di aver intrapreso un’attività ben al di là delle proprie forze, si consocia con un amico e con il fratello Paul. I due, per arricchirsi alle spalle dell’ingenuo Flavio, fraudolentemente fanno in modo che i suoi affari vadano alla malora e in più gli concedono un prestito che sanno non potrà mai essere onorato. Insomma, ben presto, contro Flavio viene spiccato un mandato di arresto per bancarotta fraudolenta. Solo in extremis il fratello Paul si ravvede, e pure avaro e taccagno qual è, concede un sostegno di settantacinquemila franchi a Flavio e la possibilità di fuggire in motoscafo, giacchè per la legge francese il domicilio era inviolabile dal tramonto fino all’alba e quindi Dalcour, a meno che non si consegni lui alle forze di polizia, dovrà essere arrestato all’alba, e fino a quel momento il commissario Laurent e degli agenti circonderanno la casa impedendo a qualsiasi persona, che fosse in quella casa, di uscire senza essere da loro intercettato. Durante l’assedio, Flavio verrà visto affacciarsi alla finestra e rispondere al richiamo della polizia ad arrendersi e verrà scorto da un agente arrampicatosi fin sotto alla finestra, prima seduto ad un tavolo, poi per terra. Il fatto è che prima che venga visto per terra, si sente chiarissimo un colpo di pistola, poi viene visto il corpo di Flavio per terra ed allora si è inclini a pensare che si sia ucciso. In realtà non tutto va così.
Infatti, nonostante lo sparo, la polizia non entra in casa perché la porta è dotata di serratura particolare. Tuttavia vedono un’auto avvicinarsi sempre più: è il dottor Rufare, amico della vittima, il quale era spaventato per dei rumori di passi e per questo gli ha chiesto di venire subito. Tuttavia nessuno può essere uscito, perché c’è il cordone di polizia tutt’attorno. Ma quando entrano, e trovano Dacour riverso per terra, il dottore, visitandolo attesta che è stato ucciso con un corpo contundente che gli ha fratturato il cranio. Mentre il dottore visita il cadavere, i poliziotti e il commissario perquisiscono la casa, mentre il figlio del dottore sta sulla porta di casa, non sopportando la vista di un cadavere.
Non trovano nessuno. E neanche la pistola. E non può essere scappato, perché l’uscita era presidiata da Pierre, il figlio di Rufare. E allora? Come ha fatto l’assassino a fuggire?
Al primo mistero se ne aggiungono degli altri.
Il dottore afferma di avere visto in casa di Dalcour 5 meravigliosi brillanti azzurri, stimati trecentomila franchi, che evidentemente la vittima aveva sperato di portare via con sé. Ma i 5 brillanti non si trovano: erano in una cassettina di ferro, che si apriva con un congegno a scatto attivabile mediante un segreto. Ma brillanti e cassettina non si trovano: il delitto è la conseguenza di un furto? L’assassino è il ladro?
La polizia mette gli occhi sulla ex domestica di Dalcour passata da pochi giorni a servizio da Caroux: può esser stata lei a trafugare i brillanti. La polizia non crede alle sue parole e l’arresta. Il fatto è che la polizia è convinta che ci siano due responsabili: l’assassino e Giannina Arlaud, la domestica. Perché le impronte rinvenute su un candelabro di argento, non appartengono ad alcuno dei sospetti, tantomeno a Giannina.
Qualche giorno dopo, viene trovato morto Paul Dalcour, fratello di Flavio: è stato trovato nella sua povera stanza (non era povero, ma viveva da povero per non spendere soldi ) chiusa dall’interno, asfissiato dal gas; sul tavolo una lettera in cui si proclama assassino del fratello. Solo che le impronte sul candelabro non sono le sue.
Emerge un altro fatto importante ora: Flavio, otto giorni prima di morire, aveva ceduto i brillanti a suo fratello Paul, in cambio di un assegno di duecentocinquantamila franchi. Perché allora Rufare ha detto di averli visti a casa di Flavio? Mentre Giannina dice di non vederli più almeno da due settimane, e il tempo coinciderebbe con la vendita degli stessi? O Flavio non li ha venduti e allora la notizia è falsa, oppure li ha venduti e Rufare ha mentito. Ma perché? Rufare dev’essere estraneo al delitto: del resto la telefonata dal suo amico è stata fatta. Per quale motivo Dalcour avrebbe chiamato proprio il suo assassino? Ma poi come avrebbe fatto ad ucciderlo, se non c’era quando Dalcour è morto? No, è un’ipotesi che non regge. Rufare dev’essere estraneo.
Come insolita e fonte di dubbi è la faccenda di Paul Dalcour. Per quale motivo egli si sarebbe dichiarato responsabile della morte del fratello se gli aveva dato un assegno per  duecentocinquantamila franchi a fronte dei cinque brillanti? E ancora più strana è la questione dell’omicidio: per quale motivo sarebbe stato ucciso se non aveva già più i diamanti? Forse l’assassino non lo sapeva, un assassino ignoto ancora nella vicenda.
Un nuovo colpo di scena esplode. La polizia riceve una telefonata anonima e intercetta due ladri che hanno compiuto un furto in appartamento e la casa è quella di Caroux: essi stanno portando via una cassettina, che viene riconosciuta da Rufare, come quella dell’amico. Dopo averla fatta scassinare, vi trovano dentro, immersi nella bambagia, cinque brillanti azzurri. Conseguenza possibile? Se Caroux aveva i brillanti, è chiaro che egli è l’assassino. Si pone sempre il problema: come avrà fatto? Caroux viene arrestato: ladro e assassino sono la stessa persona. Almeno così parrebbe.
Ma un nuovo sconvolgimento accade: i cinque brillanti, analizzati, sono falsi: per quale motivo avrebbe ammazzato Dalcour? Per cinque brillanti azzurri falsi? Caroux non lo sapeva? E perché Dalcour aveva 5 brillanti falsi, quando aveva venduto quelli veri al fratello, ora scomparsi?
Si presenta un gioielliere spontaneamente e consegna alla polizia un brillante, che è stato da lui acquistato a casa di una vecchia megera, a lui presentatasi per la vendita: essa viene identificata nella domestica di Paul Dacour. Insomma un nuovo personaggio entra nella vicenda: che ruolo ha?
Come ha fatto ad entrare in possesso dei brillanti? Possibile che il suo padrone, avaro e taccagno anche in punto di morte (andava a letto presto per non consumare la luce, e risparmiava sull’inchiostro e sui pennini, e utilizzava come carta da lettera quella ricavata da altri fogli già utilizzati) gliel’avesse detto e si fidasse tanto di lei?
Caroux prima si dichiara estraneo alla vicenda, poi chiama in causa Rufare e Giannina. Rufare, messo alle strette, rivela il vero fine di Dalcour, che lo aveva “costretto” a rimanere invece di fuggire subito: tentare una truffa, vendendo all’amico, ma anche socio di Caroux in operazioni finanziarie al limite della legalità, i cinque pezzi di vetro abilmente contraffatti.
Le indagini sono ad punto di stallo: perché se è vero che Caroux è stato arrestato con l’accusa di furto, non c’è nessuna prova che egli abbia ucciso Dalcour, né la polizia ha prove per dimostrarlo.
Entra in scena a questo punto il giudice Allou, amico del cugino del giudice Dampierre, il quale, non volendo umiliare il collega, preferisce che sia quello a dedurre, dopo aver raccolto delle prove. Allou è già molto conosciuto per aver risolto brillantemente dei casi insoluti di Camera Chiusa. Dopo aver posto sulla bilancia delle domande che nessuno si era posto (Dalcour aveva un’assicurazione sulla vita? Chi ha fatto la telefonata alla polizia che ha permesso di bloccare i due ladri? Sono davvero i brillanti il movente dell’omicidio?), Allou provoca l’azione del collega. Le indagini permettono di identificare il misterioso informatore nella persona del dott. Rufare: come sapeva egli che Caroux aveva rubato i diamanti? Rufare rientra nell’inchiesta, gli vengono prese le impronte digitali, ed ecco..queste sono quelle trovate sul candelabro. Capovolgimento della situazione: Caroux non è più l’assassino, ma solo il ladro; Rufare è l’assassino. Ma come avrebbe mai fatto? E allora Paul Dalcour perché si è dichiarato assassino del fratello?
Allou propone la sua verità: Rufare non avrebbe ucciso ma solo tentato un’estorsione. Ma allora chi è stato? E come ha fatto? In un pirotecnico susseguirsi di eventi e rivelazioni, Allou identificherà l’assassino, il ruolo di un complice, il mistero della pistola scomparsa, di quella degli altri quattro brillanti e dell’assegno di duecentocinquantamila franchi.
Romanzo pirotecnico, propone una continua inversione di ruoli e situazioni, giungendo sul finire del romanzo a proporre una ipotesi sconvolgente: un omicidio che diventa suicidio e un suicidio che diventa omicidio, riuscendo a ricostruire esattamente la vicenda e il ruolo di ogni singolo protagonista. Il continuo turbillon di avvenimenti, di rivelazioni e di controrivelazioni che annullano le precedenti creano uno spaesamento del lettore che, avvinto dagli avvenimenti, non riesce più a capire nulla. Confesso che persino il sottoscritto, che ne ha letti tanti di romanzi, non avrebbe mai pensato alla possibilità di invertire la sostanza delle morti dei fratelli. Veramente un romanzo straordinario.
Del resto il coinvolgimento di Rufare nella vicenda si estrinseca in una messinscena: i passi che Dalcour aveva sentito, sono solo un depistaggio, per… Ma allora in cosa c’entra? Come mai non è l’assassino se sul candelabro che ha provocato la morte di Dalcour c’erano le sue impronte? Ma Dalcour è morto per la frattura oppure no? E perché lui avrebbe attestato la morte di Dalcour? E perché l’autopsia rivela la frattura effettivamente? Insomma di carne sul fuoco Vindry ne mette tanta!
Ricordiamoci che il romanzo, il terzo nella successione dei dodici di Vindry, è del 1933.
Nel 1941 Agatha Christie consegnerà alla storia un romanzo che farà epoca ed influenzerà tutto il genere: Evil Under the Sun. Vi ricordate l’escamotage del romanzo? Beh, è anticipato in questo, né più né meno. Possibile che la Christie abbia copiato l’idea di Vindry? Possibilissimo direi, visto che stranamente anche quella di un romanzo di Steeman, Six hommes morts, si ritrova nel suo capolavoro Ten Little Niggers, e in quello di Bristow & Manning, The Invisible Host. A mio parere bisognerebbe analizzare l’opera della Christie alla luce anche dell’influenza del romanzo francese. Non a caso lei riconosceva l’enorme influsso dato alla sua velleità di scrivere romanzi polizieschi, di Le mystere de la chambre jaune di Gaston Leroux. In realtà l’accertamento della morte nel romanzo di Agatha Christie porta ad una serie di conseguenze, perché la morte non è ancora avvenuta; mentre nel romanzo di Vindry la morte è avvenuta, ma l’accertamento di essa si esplica con un diverso iter consequenziale. Tuttavia l’idea base è la stessa: un falso accertamento effettuato su un corpo esanime e quello che compie l’accertatore nel momento in cui ha allontanato i presenti.
E Vindry? Indubbiamente già in questo romanzo troviamo un tema che ricorrerà in uno dei suoi capolavori successivi, La Bête hurlante: il fatto che la casa sia circondata da un cordone di polizia che determina l’impossibilità che l’assassino sia riuscito a fuggire. Ma troviamo anche caratteristiche riconducibili anche ad altri romanzieri francesi del periodo: il fatto che al centro della trama non vi sia una caratterizzazione psicologica dei personaggi ma l’enigma. E’ l’enigma, il centro di tutto, intorno a cui si muove la vicenda: in sé per sé la caratterizzazione psicologica è nulla o quasi e anche l’esiguità degli attori fa sì che l’azione si concentri esclusivamente sulla storia, un procedimento che si trova concretizzato anche in Boileau. E’ evidente che Vindry si ponga in maniera antitetica rispetto a Simenon, per cui invece l’enigma non è il fulcro della vicenda ma solo un tassello ed il centro di tutto invece è la psicologia dei personaggi: Vindry è molto più vicino a Carr, anche se Carr in certi suoi romanzi caratterizza i personaggi in maniera più a tutto tondo di quanto non faccia Vindry.
Per lo specialista in letteratura poliziesca Roland Lacourbe, Vindry è l'equivalente francese di John Dickson Carr. Io, tuttavia, la penso diversamente: a mio parere, Vindry più che essere l'equivalente di John Dickson Carr, è l'equivalente di Clayton Rawson. Come Clayton Rawson nella creazione dell'atmosfera  non è il massimo, così accade nei romanzi di Vindry, dove tuttavia la qualità della trama e la soluzione sono di alta qualità, di estrema virtuosità. Quasi in più rispetto al Carr, come accade ad esempio a mio parere nei romanzi di Rawson.

Vindry è vicino a Carr, ma il Carr di Bencolin. E non tanto per la struttura del romanzo come abbiamo detto, ma per certi particolari che sono presenti in It Walks By Night e qui si ripetono:  Vindry comincia a scrivere nel 1931, mentre il primo romanzo di Carr è del 1930; in ambedue, protagonista è un giudice, ancor più juge d’instruction: è lui che risolve il mistero; in Carr il primo Bencolin si trova dinanzi una Camera Chiusa, e guarda caso di quali casi si occupa il giudice Allou? Di Camere Chiuse. 
Tuttavia se Vindry è vicino a Carr, lo è anche per un’altra faccenda: ambedue, ma in realtà anche Boileau spesso, per arrivare alla soluzione, capovolgono la situazione: quando il quadro delle prove non porta a nulla, provano a guardare il problema da una diversa prospettiva, che spesso è opposta. Sia Bencolin o Fell (o H.M.) sia Allou hanno la capacità di staccarsi dal mondo reale e guardare la successione degli eventi come se il loro spirito si fosse librato astralmente, staccandosi dalla materialità degli eventi terreni.

Così come in Hag’s Nook capovolgendo l’ordine delle cose Carr riesce a individuare l’assassino tra il meno probabile, qui Vindry riesce a dargli un nome, anzi a provare la sua colpevolezza, sovvertendo l’ordine delle cose: un assassinio diventa suicidio ed un suicidio diventa omicidio.

Tuttavia, nel momento in cui accade questo rovesciamento di prospettiva, aumenta anche il virtuosismo dell’indagine. Se infatti le cose così avrebbero un senso (Paul Dalcour è stato trovato a letto come se volesse dormire; la lettera che ha lasciato, dato la sua tendenza a utilizzare pezzi di lettera, sarebbe potuta essere un frammento di una lettera più lunga, con un senso diverso rispetto a quello che a prima vista si desumeva: la filiazione dal Chesterton di The Wrong Shape, è chiarissima), gli interrogativi aumentano a dismisura: con l’omicidio, si tende a conoscere l’identità dell’omicida ed il suo modus agendi; con il suicidio, la scomparsa della pistola, dell’assegno, la frattura del cranio, la strana constatazione di decesso di Rufare che collima con quella del medico legale, le sue impronte sul candelabro, ma nello stesso tempo la sua estraneità all’assassinio; e nel tempo stesso, il suicidio che diventa omicidio di Paul, costringe gli inquirenti a confrontarsi con la soluzione di una Camera Chiusa diventata tale. E il tutto, spiegando anche gli alibi.
Così, in sostanza, il capovolgimento dell’ordine delle cose porta Vindry a capovolgere il senso di due Camere Chiuse: spiegando la prima in modo che non lo sia, e spiegando la seconda morte come in effetti una Camera Chiusa, al tempo stesso dandone una soluzione assolutamente lineare.
E’ da dire peraltro che Vindry, a differenza di Agatha Christie e apparentandosi ancora una volta a Carr, non imbroglia per nulla il lettore: il quadro dei fatti è assolutamente quello che è davanti agli occhi de magistrato, quella che cambia è la prospettiva da cui viene guardato il problema e la capacità di immaginare, allontanandosi dal reale.
E per certi versi Vindry, realizza qualcosa di suo, una caratteristica assolutamente personale, nel suo far diventare difficile il facile: diversamente da tutti i comuni detective che cercano in tutti i modi di semplificare la successione degli eventi, riducendo i fattori ai minimi termini, Vindry realizza un absurdum: spiegare l’inspiegabile, facendolo diventare ancora più astruso e più denso di implicazioni recondite, nel tempo stesso spiegandole e dando all’insieme un suo significato.

Pietro De Palma

lunedì 24 ottobre 2016

Herbert Resnicow : Il Grande Gold (The Gold Solution, 1983) – Traduz. Gigi Coretti – Il Giallo Mondadori N. 1870 del 1984.


Herbert Resnicow è scomparso quindici anni fa, dopo aver vissuto 77 anni. Era nato nel 1920, ma la sua entrata di diritto nella storia della letteratura poliziesca, si attua solo nel 1983 con The Gold Solution, opera prepotente e anche ammiccatamene ruffiana che gli fa conquistare una nomination a sorpresa per la miglior opera prima nel campo dei romanzi, agli Edgar Award del 1984.
E’ il suo debutto ufficiale. Rinuncia alla Crime Novel americana contemporanea, fatta di Hard-boiled mischiato a temi sociali per recuperare la Detection Novel più classica, ammiccando a Van Dine e Rex Stout.
E’ stato per molti anni ingegnere edile, combattendo nel Genio Militare durante la Seconda Guerra Mondiale, e svolgendo la propria professione fino al giorno in cui ha deciso di scrivere un romanzo giallo. L’occasione, se così si volesse dire, gliela fornì un avvenimento doloroso: colpito da infarto, decise di ingannare il tempo scrivendo prima racconti, poi un romanzo in cui inserisse le proprie conoscenze di tecnica delle costruzioni assieme ad una trama poliziesca di tipo classico. Fino alla morte, avvenuta sempre per questioni cardiache, ha scritto parecchi altri romanzi alcuni dei quali hanno ottenuto notevoli successi di pubblico. Simpatico, “bello in carne”, si è interessato anche alla costruzione di impianti hi-fi avveniristici. Hobby: polizieschi e musica classica. Forse per questo mi è anche così simpatico. Al tempo disse ironicamente che “il comitato (n.d.r. : per l’assegnazione degli Egar) forse ha dei pregiudizi contro gli ebrei di mezza età, casalinghi, sposati, piccoli e grassi”. A distanza di quindici anni, comunque, pochi si ricordano di lui. Parecchi dei suoi romanzi sono stati pubblicati ne Il Giallo Mondadori
L’opera prima di Herbert Resnicow è The Gold Solution, 1983.
In essa si ritrovano accenni biografici: infatti, Alexander Gold, costruttore, come il suo ideatore, Resnicow appunto, ha subito un grave infarto. Durante la convalescenza, dal suo amico e mentore Hanslick Burton, ricchissimo avvocato, gli viene proposto di occuparsi di un caso apparentemente senza via d’uscita: un giovane architetto alle prime armi, Jonathan Candell, è stato trovato con un coltello grondante di sangue in mano davanti all’agonizzante celeberrimo architetto Roger Allen Talbott, dell’omonimo studio, famoso per i suoi edifici a piramide. Cosa c’è di interessante? Il fatto che allo studio dove è stato trovato il moribondo, sito nell’attico di una avveniristica costruzione dotata dei sistemi di allarme più efficienti, si accede solo attraverso un ascensore, che viene sbloccato da Talbott stesso; che Candell è stato chiamato da Talbott meno di un minuto prima del suo accoltellamento, e dopo solo la cameriera gli aveva portato dei formaggini danesi e del latte; che nello studio non ci fosse nessun altro all’infuori di Candell e dello stesso Talbot; e che le uniche porte di sicurezza esistenti fossero dotate di allarmi e campanelli, tali che nessuno avrebbe potuto usarle senza essere individuato immediatamente; inoltre non esistono passaggi segreti o false pareti. Insomma..in pratica una camera chiusa, con un unico possibile assassino. Che però si professa innocente: è ebreo praticante, contrario alla violenza, non avrebbe avuto nessun movente per uccidere Talbott. Del suo caso si è dapprima interessata Norma, moglie di Hanslick. Poi ella, amica di Pearl, a sua volta moglie di Alexander Gold, pensa che solo lui, l’investigatore dilettante, possa risolvere il caso, evitare la pena di morte a Candell, e togliere una grossa gatta da pelare a Hanslick che non sa come vincere una causa disperata.
Alexander accetta, ma solo in cambio di una grossa ricompensa: dovrà, da casa sua, impossibilitato a muoversi per almeno tre mesi, risolvere il caso sulla base dei dossier e delle prove circostanziali e delle indagini svolte, al suo posto, dalla moglie, Norma. Ecco il legame con Stout: come Nero Wolfe, Alexander Gold è pesante, e non si sposta, e svolge le indagini, e risolverà questo intricatissimo caso, basandosi sull’aiuto prezioso di sua moglie Norma che come Archie Goodwin, fa da spalla al grande investigatore. Archie, non Watson: Watson assiste alle indagini di Sherlock Holmes, non le conduce come fa Archie, e Norma.
I soli possibili sospetti sono i quattro soci di Talbott (Bauer, Bishop, Dakin, Kirsh) che però al momento della morte non erano lì, la moglie Irma (che però nel momento in cui moriva il marito era dabbasso assieme alla cameriera), ed il suocero (Rufus C. Miller). Ma quale movente avrebbero avuto tutti e sei ad uccidere la classica gallina dalle uova d’oro, il più celebre architetto d’America, che monetizzava in fiumi di denaro qualsiasi idea, con i suoi celeberrimi schizzi a matita, perfetti, senza cancellature (si diceva persino che in gioventù avesse emulato Giotto, disegnando a mano libera una O perfetta, ed inscrivendo al suo interno un altro cerchio perfetto), sviluppati poi dal team di architetti che gli stava attorno in soluzionia architettoniche ardite?. Sta ad Alexander trovarlo.
Riesce a togliere la maschera a tutti e quattro (invidiosi fino all’estremo e desiderosi di succedergli nella società, almeno tre su quattro): tutti e quattro lo odiavano, ognuno rimproverandogli la fama acquistata a spese loro, senza che avessero una pur minima parte della sua celebrità e dei suoi soldi, quando non esistesse altra ragione valida, più segreta. Norma fornisce a suo marito l’indizio che lui Gold, tramuta in altro movente: l’amore morboso di Talbott, che come alcuni produttori cinematografici degli anni ’20, approfittava sessualmente di tutte le collaboratrici “piccole, bionde e cicciotelle”, per una sola volta, nel suo studio, dopo averle irretite, e portandole sempre o quasi, all’esaurimento nervoso, o a gravi sindromi da suicidio (la segretaria di cui si innamora il dirigente ricchissimo, che poi la abbandona).
Riuscirà a individuare l’unico assassino, tra i sei sospettati, distruggendo un alibi inattaccabile. Basandosi sulla massima poliziesca più classica, che cioè quando il possibile non trova posto bisogna attaccarsi all’impossibile per spiegare l’inspiegabile, Gold imbastisce la sua accusa, facendo leva su una serie di indizi che gli fornisce la moglie, già archivista, e principalmente concentrando le indagini su chi potesse trarne dei vantaggi: Cui Prodest?
Se all’inizio pareva che tutti e sei avrebbero avuto solo a rimetterci dalla morte di Talbott, scavando in profondità, facendo domande, anche le meno sensate, costruendo possibili rapporti tra persone apparentemente estranee, Gold e la moglie riescono a mettere in luce un piano accuratamente premeditato, per il quale abbisognava solo avere a portata un capro espiatorio, Candell appunto, che non avesse alcun possibile rapporto di odio/amore con l’assassino, cosicché non si potesse con lui trovare alcun tipo di legame. Un qualsiasi capro espiatorio: se non ci fosse stato Candell, probabilmente qualche altro povero Cristo sarebbe stato scelto per essere immolato sull’altare del delitto perfetto. Ma la costruzione ha però delle incrinature invisibili, che Gold riesce a rendere visibili.
La Camera Chiusa viene spiegata non sulla base di aggeggi o diavolerie meccaniche strane, bensì sulla contemporaneità di azioni di cui originariamente non si sapeva nulla e che egli suppone, ricercando poi una serie di prove che la possano suffragare; e soprattutto su un patto di morte.
Interessante romanzo, non si distingue per qualità narrativa o stilistica, quanto per l’uso sapiente e manieristico dei riferimenti, attingendo da tutta la letteratura che prima di lui si è sviluppata: da Carr, da Rex Stout, e persino da Ellery Queen. Infatti, cos’altro sarebbero gli innocenti schizzi buttati giù da Talbott sull’ultimo suo progetto, su cui stava lavorando mentre l’assassino lo ha sorpreso, fatto arrivare lì all’ultimo piano da qualcuno, e camminando silenzioso sulla spessa e morbida moquette, se non “the dying message” di queeniana memoria? Ignorati da poliziotti troppo reali per possedere un briciolo di quella fantasia che permette a Gold di risolvere il caso, e troppo ignoranti per non aver letto neanche un romanzo della grande stagione creativa di Ellery Queen, non riescono a vedere nella “rapa e nel salame”, per esempio, uno dei soli possibili indizi che il morente Talbott avrebbe potuto trasmettere senza che il suo assassino che gli era accanto potesse in alcun modo sospettare che essi fossero delle accuse a suo carico.
L’unico rimpianto e anche il solo rimprovero che gli posso fare è di non esser riuscito a mantenere fino alla fine la tensione per l’accusa dell’assassino, tradendosi alcune pagine prima, e mantenendo la tensione solo per la scoperta del complice, l’ideatore della messinscena.
Alla base di tutto cosa c’è? Ma ovviamente il vil danaro! E anche il sesso!  Due delle cause preferite che da sempre, sotto sotto, costituiscono la base per i delitti veri e soprattutto per quelli di carta, i nostri amati “Delitti per diletto” di Mandeliana memoria.

Pietro De Palma

sabato 15 ottobre 2016

Paul Halter : A 139 Passi dalla morte (A 139 Pas de la Mort, 1994) – trad. Igor Longo – Il Giallo Mondadori N. 2603 del 1998.

Il titolo originale francese del romanzo di Paul Halter, che esaminiamo oggi, è A 139 pas de la mort, tradotto fedelmente e in maniera inconsueta nell’italiano  A 139 passi dalla morte.
Roland Lacourbe, anni fa, parlandone, lo etichettò come uno dei lavori minori dello scrittore alsaziano: io, pur riconoscendo l’indiscussa autorevolezza di Lacourbe, sono di diverso avviso: per me, si tratta di uno dei lavori migliori, un autentico capolavoro.
Su che basi faccio queste affermazioni?
Il romanzo è un vero florilegio di situazioni bizzarre, strane. La storia è sviluppata sulla base di una trama quantomai strampalata e macabra, che più non si può: chi ama come me i romanzi francesi (fu Igor Longo a gettare in me i semi di questo amore), sa che spesso il “macabre” è una caratteristica dei polizieschi francesi di un certo periodo. Halter ha ereditato questa peculiarità, e chi lo ama sa che in molti dei suoi romanzi sono presenti le scene macabre, probabilmente una eredità anche di Edgar Allan Poe. Nel nostro caso, il “macabro” abbonda.
Ma  Halter è anche un manierista, l’ho già detto in altro tempo; e del resto non potrebbe che essere così, visto che dopo Carr (e Rawson) tutto il resto dei romanzieri che ha seguito le loro orme, è finito invariabilmente per ripetere le loro invenzioni, magari solo inventando nuovi modi per attuarle. Ma anche se manierista, Halter ha un grande pregio: è un romanziere nato, con una fantasia straripante e delirante.
Qui riesce a fondere due situazioni, che a prima vista sono assolutamente slegate, in una macchinazione che pur non riuscendo a convincere al pari dei plot carriani (è pur sempre un manierista) almeno impressiona per la fantasia che mette in campo.
Neville Richardson, detective privato, si imbatte una sera in una bella ragazza che gli appare spaventata da qualcuno o qualcosa. Decide di seguirla e la becca poco dopo mentre parla con un tizio. Da lontano non riesce ad identificarlo tranne che per un particolare che lo fa rabbrividire: una voce ed una risata roca e stridula. Abbordata la ragazza, e atteggiandosi come quel tizio (bavero alto e cercando di non far vedere il viso), riesce a sapere che qualcosa dovrebbe accadere il 16 aprile. E a ciò è connesso una mossa che lui ha visto fare, nel dialogo tra l’individuo e la ragazza: un pugno col pollice alzato. E poi la frase sibillina: “Il 16 alle 21,la porta in fondo sopra l’uccello” Cosa mai significheranno?
L’azione si sposta altrove. Un tale Paxton rivela all’Ispettore Hurst e al criminologo e investigatore a tempo perso Alan Twist, che un tale lo ha assunto per fare una cosa del tutto senza senso: indossando degli abiti e delle scarpe, messi a disposizione da lui (e solo quelli: non può indossarne altri, per esempio propri), deve camminare tutto il giorno per recapitare della corrispondenza, da un posto ad un altro, sempre gli stessi: deve recapitare una busta, e consegnare gli abiti;  e poi il giorno dopo prelevare da lì un’altra busta e riportarla al suo datore di lavoro, re-indossando gli stessi abiti: sempre e solo due buste, sempre gli stessi abiti.. Ma la cosa bella è – e viene anticipato proprio da Twist nella rivelazione – che all’interno delle buste non c’è nulla.
Cosa c’entra questa singolare occupazione, con quanto narrato precedentemente? Il fatto che il misterioso imprenditore che lo ha assunto per una cosa apparentemente senza senso, abbia una voce roca e stridula.
Il fatto che ci siano stati dei furti di gioielli, fa sì che qualcuno pensi ad un traffico di preziosi, magari occultabili nel tacco delle scarpe che invariabilmente si consumano e a cui devono essere cambiate suole e tacchi.
Intanto la scena si sposta in un piccolo villaggio distante mezzora da Londra: qui abita un ex poliziotto con la nipote. Mentre è intento a cercarla, la trova che fissa una casa abbandonata e in rovina, prima appartenuta ad un vecchio eccentrico, un certo Fiddymont. Si dice che un alone di mistero aleggi su quella casa.
Il 16 aprile arriva ed intanto non si è capito ancora cosa sia quel misterioso gesto con la mano. O meglio, ci si arriva in ritardo, in quel giorno: “L’uccello nella mano” (traduzione “The Bird in Hand”) è il nome di un pub, nelle vicinanze del Covenant Garden. Nella soffitta del palazzo in cui trovasi il locale, viene trovato un uomo ucciso: è il fattorino di cui si è parlato prima: Paxton.
Perché mai è stato ucciso?
Intanto qualcuno avvisa la polizia, l’uomo con la voce stridula, che  “qualcuno” è stato visto aggirarsi nei pressi della dimora del defunto Fiddimont. Ecco cosa collega le due parti: l’uomo dalla voce stridula. Una casualità?  Twist ed Hurst non ci credono. E si recano in questa casa abbandonata: assi sconnesse, erbacce dappertutto, finestre sbarrate, e la porta dell’ingresso chiusa dall’interno. Trafficando con bastoncini di legno e con fogli di giornale, riescono a far cadere la chiave dall’altra parte, recuperarla col giornale ed usarla per aprire la porta. Appare uno scenario da incubo: i mobili e quant’altro all’interno della casa, abbandonata da cinque anni, sono ricoperti di polvere che uniformante è diffusa ovunque. Eppure i due annusando l’aria sono inquieti: aleggia un odore di..morte. In una stanza, chiusa verso l’esterno, su una poltrona posta tra la finestra ed il camino, ritrovano il cadavere del vecchio Fiddimont, ancora sporco di terreno, vecchio di cinque anni. Come ha fatto a finire lì, se non vi sono impronte sul pavimento ricoperto di polvere? E come è potuto accadere che la casa fosse a sua volta chiusa dall’interno, come se il vecchio Fiddymont fosse uscito dalla tomba e vi si fosse recato? Qualcuno aveva, un po’ di tempo prima, parlato di rumori e voci provenienti dalla tomba del vecchio, e la stessa terra era apparsa smossa. Ovviante, recuperata la bara, seppellita a breve profondità nella terra, essa si presenta vuota. La cosa singolare è che, all’interno della casa, qualsiasi cosa si sia verificata, ad essa hanno assistito innumerevoli testimoni: decine di paia di scarpe, di tutte le fogge, dimensioni, colori, femminili e maschili, allineate le une alle altre una a fianco all’altra, per terra, coperte di polvere.
Si viene a sapere che qualcuno, nell’entourage dei parenti di Fiddymont, aveva ipotizzato che l’interesse del defunto a tutte quelle scarpe potesse esser messo in relazione a gioielli occultativi all’interno. Cosa legherebbe Fiddymont al misterioso individuo dalla voce stridula?
E ha una sua importanza nella vicenda la sparizione di un pezzo di grondaia della casa?
Fatto sta che ben presto, un nuovo assassinio si verifica: viene ucciso  il professor Lynch, sposato a Emma Lynch erede del vecchio Fiddymont. Viene trovato in un’altra casa abbandonata, stavolta vicino a Covenat Garden: ma quante case abbandonate! E accanto al cadavere, sempre le vecchie scarpe.
Toccherà a Twist inchiodare un assassino diabolico, non prima che questi abbia ucciso ancora una volta: il vecchio poliziotto Winslow, amico di Twist ed Hurst, che con loro ha partecipato alle indagini, e che abita nel villaggio. Ha avuto anche lui una parte? E quale?
Il romanzo è un portentoso “divertissement”, pieno di false piste ( a cominciare dal primo assassinio; altra falsa pista è quella delle scarpe: ma poi perché il vecchio Fiddymont aveva voluto che restassero nella sua casa, in quella quantità? E terza falsa pista è quella della profanazione della tomba del vecchio, del disseppellimento del suo cadavere, e della sua ostentazione in una casa ermeticamente chiusa dall’interno), di falsi indizi (la voce stridula), di veri indizi (i rapporti adulterini che quattro personaggi hanno tessuto tra di loro; il pezzo di grondaia sparita).
Il romanzo è pieno di falsi indiziati e di colpevoli dissimulati: i furti hanno la loro importanza, ma non costituiscono una ragione o tantomeno un movente degli assassini. Halter in questo, mi sembra che citi l’Ellery Queen de “The Twins Siamese Mystery”, solo che, come molto spesso opera nei suoi romanzi, inverte la situazione: chi conosce bene quel romanzo di Ellery Queen, sa a cosa mi riferisca quando parlo di furti. Lì l’assassino è il ladro, qui no. Ma il movente dell’omicidio mascherato è lo stesso. E così come lì, anche qui l’omicida cerca di far incolpare chi non c’entra nulla. Una serie di coincidenze che mi sembrano assai poco casuali per non essere ricordate. Tuttavia c’è anche dell’altro.
Ci sono infatti altre citazioni, che sono volute e manifestate : He Wouldn’t Kill Patience di Carter Dickson/J.D.Carr, ma anche volute e non manifestate. Come quella di Ellery Queen prima citata, un altro passo famoso è tratto dal  racconto di Conan Doyle “The Adventure of the Red-Headed League”  tratto da “The Adventures of Sherlock Holmes”: si riferisce all’occupazione di Paxton che viene assunto per un fine a lui ignoto, determinante per la riuscita di un fatto criminoso (nel suo caso, il suo assassinio). Qui rilevo, un’altra delle caratteristiche comuni nei romanzi di Halter: il fatto che spesso nei suoi romanzi le vittime siano al centro di macchinazioni; ma anche che gli stessi assassini finiscano per essere delle vittime, di eventi che accadono a loro insaputa. Qui, per esempio, l’omicida che aveva premeditato un assassinio perfetto, viene scoperto perchè qualcuno, a sua insaputa, avendo compreso che un pericolo sta sovrastando una persona, fà sì che intervenga la polizia. Come? Leggete il romanzo!
Altra citazione è quella del canale della grondaia utilizzato per creare delle voci che mi ricorda un racconto di Hoch, The Problem of the Whispering House.
Ma oltre alla doppia impossibilità (camera chiusa, senza orme, e cadavere disseppellito), la cosa interessantissima di questo romanzo è la “Locked-Room Lecture”, che Halter pone come omaggio alle grandi dissertazioni sulle Camere Chiuse, inventate prima della sua, innanzitutto quella di Carr.
Ed è proprio questa presenza emblematica e caratterizzante ad impreziosire il romanzo (come ho rimarcato nei miei tre saggi sul Blog Mondadori, una dissertazione rende unico il romanzo in cui viene posta).
Ma le scarpe? Cosa c’entrano? Sarà il finale, un finale da lasciare a bocca aperta, che ha il sapore di una fiaba melanconica, a spiegarne il significato. Soprattutto alla luce degli atteggiamenti “di pazzia” attribuiti al vecchio Fiddymont, ma che pazzo proprio non era. Semmai un nostalgico di quell’infanzia che non aveva avuto.

Pietro De Palma