venerdì 7 ottobre 2016

Claude Aveline: La doppia morte dell’Ispettore Belot (La Double Mort de Frédéric Belot, 1932) – traduz. Cesare Giardini – Prefazione di Alberto Tedeschi – in appendice “Doppia nota sul romanzo poliziesco in generale e su questa “Suite” in particolare – Oscar (Gialli N.99) Mondadori N. 1556 dell’Agosto 1982 – Pagg. 158.


 Più passa il tempo, più trovo rimandi ad una domanda che ogni volta mi sorge spontanea, e a cui non so dare risposta: perché proprio nel 1932 son nati tanti capolavori della letteratura poliziesca?
Perché proprio quell’anno? Non lo so.
Qualche tempo fa ho scritto un pezzo su ll Caso Saint-Fiacre di Simenon, anch’esso del 1932. Ma nel 1932, uscirono innumerevoli capolavori: per es. Peril at End House, di Agatha Christie; Poison in Jest, di John Dickson Carr; The Greek Coffin Mystery, di Ellery Queen; Obelists at Sea, di Charles Daly King; Murder on the Yacht, di Rufus King; Sudden Death, Freeman Wills Crofts; La Maison interdite, di Michel Herbert & Eugen Wyl; The Devil Drives, di Virgil Markham; The Wailing Rock Murders, di Clifford Orr;  La Maison qui tue, di Noel Windry; etc etc etc Tra gli altri, lo straordinario  La Double Mort de Frédéric Belot, di Claude Aveline.
Chi sarà mai costui? avrebbe detto Don Abbondio. Non è un nome conosciuto ai più, anzi si può dire che in Italia solo pochi si ricordano di lui, e ancor meno hanno avuto la fortuna, come il sottoscritto, di leggere i suoi romanzi polizieschi.
Claude Aveline, nato nel 1901 e morto nel 1992, fu un grande intellettuale francese, poeta e critico famoso, attivista e partigiano durante il Governo Petain, amico di Anatole France e Jean Vigo, personaggio sempre in primo piano fino agli ultimi anni di vita.
Nel 1932 scrisse il suo capolavoro, nell’ambito della letteratura poliziesca, La Double Mort de Frédéric Belot; tuttavia, fino a quel momento, non aveva scritto proprio nulla di poliziesco. Si può dire quindi, senza alcun timore di sbagliare, che quest’opera coincise col suo esordio nella letteratura di genere.
Straordinario romanzo, si è detto; ma anche uno straordinario successo per l’epoca: il pubblico francese impazziva per le storie gialle, e si può dire a ben donde che, diversamente dall’Italia che era sempre stata anglofila fin dagli esordi, e che quando aveva esordito con investigatori italiani, i riferimenti erano pur sempre stati anglosassoni, in Francia, vuoi per campanilismo, vuoi per la tendenza dei francesi a non riconoscersi inferiori chiunque altro, ben presto molti autori francesi o comunque francofoni avevano provato a scrivere storie gialle, e avevano dimostrato di essere alla pari se non meglio di altri scrittori anglosassoni.
Il romanzo ebbe subito molte edizioni in Francia e fu tradotto in breve tempo in tredici Paesi diversi, tra cui l’Italia, in cui il romanzo, con un titolo abbastanza fedele “La doppia morte dell’Ispettore Belot”, fu tradotto da Cesare Giardini (lo stesso traduttore de Il caso dei Fratelli siamesi di Ellery Queen, prima che venisse ritradotto da Gianni Montanari) e pubblicato ne I Libri Gialli Mondadori, col numero 77, nel 1933.
Perché ebbe  tanto successo questo romanzo in patria? Per vari fattori.
Il primo, è ascrivibile all’editore:
Bernard Grasset, aveva fondato nel 1907 “Les Editions Nouvelles” e da quel momento, la sua casa editrice si era distinta nella pubblicazione delle opere dei maggiori scrittori ed intellettuali francesi, tra cui per esempio Monsieur des Lourdines di Alphonse de Chateaubriand, Filles de la pluie di André Savignon, e anche Du côté de chez Swan di Marcel Proust. Ma aveva anche pubblicato Diderot, Voltaire, Gide, Valéry. Insomma, nel 1932, le edizioni di Bernard Grasset, che come allora, si trovano ancor oggi in Rue des Saints Pères, 61 a Parigi, erano la punta di diamante dell’editoria francese, e presentavano opere estremamente serie.
Il secondo fattore, è sicuramente ascrivibile al romanziere:
Aveline era un gran nome in Francia, già a quel tempo. Aveva pubblicato parecchie opere di critica letteraria, con la sua omonima casa editrice, e contava già illustri amicizie, tra cui soprattutto quella di Anatole France, di cui era diventato il seguace più fedele. E poi quella di Jean Vigo, il regista de “L’Atalante”, uno dei film più importanti del secolo scorso.
Insomma, il fatto che l’editore francese più importante al tempo ed uno degli intellettuali francesi di punta dell’epoca avessero deciso di puntare sul lancio di un’opera di narrativa poliziesca, ebbe il suo immediato eco, nella società del tempo, e contribuì alla diffusione del romanzo. Fu intendimento premeditato o non voluto? Aveline lo fa capire chiaramente quando, nella sua “Doppia nota sul romanzo poliziesco” pubblicata nell’Oscar Mondadori, in appendice al romanzo (come nell’edizione Mercurie del 1963), dichiara che se “La doppia morte” fosse appartenuta ad una collana specializzata, sarebbe passata inosservata dai critici, che si ostinano ad ignorare la letteratura poliziesca. Un nome famoso di editore sulla copertina, editore che non aveva avuto niente a che fare, anche lui, con questa letteratura, attirò la loro attenzione. La lettura della mia prefazione, li costrinse tutti a schierarsi pro o contro..ho avuto buoni alleati e rudi avversari. Ma avevo raggiunto il mio scopo” (pag.153).
Si può dire che però, Aveline, ci mise molto di suo, passando molte settimane alla Prefettura di Parigi, ad impadronirsi di un mondo che rese in maniera mirabile. E lo rese talmente bene che il successo gli arrise. Anzi, esso fu talmente clamoroso, che il buon Aveline, che nel 1936 aveva pubblicato il suo “Le Prisonnier”, a cui si dice si fosse ispirato Albert Camus per il suo “L’Étranger”,  pensò di scrivere dell’altro. Purtroppo egli aveva  fatto morire Belot al primo colpo e persino due volte e perciò introdusse delle avventure che avevano avuto luogo prima che egli potesse morire Infatti come egli ebbe a dire in merito al suo primo romanzo …“ L’ennui c’est que j’avais tué mon policier du premier coup, et même deux fois, je n’avais pas prévu qu’il aurait à reprendre du service. Heureusement, je ne l’avais pas fait mourir trop jeune”. E così nel 1937, pubblicò il suo secondo scritto, Voiture 7 place 15, seguito da L’Abonné de la ligne U e infine da Le Jet d’eau. Da allora passò molto tempo prima che riprendesse a scrivere storie poliziesche: negli ultimi anni della sua vita scrisse l’ultimo capitolo della Suite,  L’Œil-de-chat. Comunque il suo capolavoro è il primo dei suoi scritti, tanto che più tardi, in occasione della ripubblicazione della sua opera completa, in forma di “Suite poliziesca” presso Mercurie nel 1967, scrisse una “Doppia nota sul romanzo poliziesco in generale e sulla suite in particolare”.
Come Aveline scrisse, il romanzo “è una storia che ricomincia alla fine. Se c’è un romanzo che si presta a essere riletto, questo, contrariamente all’opinione generale, è proprio il poliziesco. Il lettore ha seguito un’indagine, mettendosi nei panni dell’investigatore. Ebbene, ora può riprenderla, non più con gli occhi dell’autore, ma con quelli del criminale. Con gli occhi, il cuore, le viscere del criminale. Alle mosse del futuro trionfatore, si sostituiscono le angosce di un essere braccato dalla polizia, oppure dai propri rimorsi. Nel romanzo letterario ‘consueto’, il lettore può sognare soltanto durante il suo primo contatto con l’opera… qui, invece, egli si trova in grado di evocare un nuovo dramma. Qui può creare”.
Aveline immagina che Simon Riviere, ispettore di polizia e figlio a sua volta di un ispettore di polizia giudiziaria, gli narri la più sensazionale, ma anche l’ultima avventura di Frédéric Belot, Capo della Brigata Speciale e suo padrino. Già il fatto che Belot, uomo sempre attivo, abbia accettato un posto dietro una scrivania, ha fatto parlare parecchi dei suoi conoscenti, tanto più che egli così ha dato via libera a Picard, di diventare Direttore della Polizia Giudiziaria. Ma le sorprese non sono finite: infatti Belot, scapolo impenitente, annuncia la decisione di sposarsi con la signora Deguise.Poi accade che una sera che Belot è atteso da Picard per una questione delicata, egli non si faccia vivo. Riviere viene mandato a cercarlo. E’ il 4 novembre.
Si reca presso la casa in cui dimora, in Rue de Crimée 26, e chiede alla portinaia di Belot, sentendosi rispondere che il suo padrino non è uscito. La porta di casa è chiusa, e non avendo le chiavi, si serve di alcuni strumenti che i poliziotti come lui portano addosso e la forza. Quando entra in casa “è buio pesto”.
Accende la luce nell’anticamera, e vede appeso il soprabito e il cappello di Belot. Trovando chiusa la porta dello studio, la apre  e illumina lo studio anch’esso nell’oscurità: al centro della stanza vede Belot per terra, rantolante.. Accende il lampadario e si rende che è ferito alla testa e anche al corpo, e vicino a lui c’è la sua pistola, una Browning. Emozionato fa per telefonare ai suoi superiori e chiedere aiuto e un’autoambulanza, quando..vede spuntare da sotto un pesante tendaggio che divide lo studio dal salotto, una mano contratta. Scosta la tenda e si trova il corpo di un altro uomo, riverso con la faccia per terra, anche lui vestito di grigio e anche lui con una Browning. Lo rivolta e.. “vidi che anche quest’uomo era Frédéric Belot. Ma un Frédéric Belot morto” (pag.31).
Da questa scoperta, prende l’avvio una storia che ha dell’incredibile, in cui “il doppio” è l’elemento predominante, in cui le verità sono tali fino a che non si scopre qualcosa in grado di rovesciarle completamente, in cui gli avvenimenti si può dire che siano uno conseguente all’altro, come tante scatole cinesi.
Innanzitutto bisogna scoprire, chi di quei due sia il vero Belot e chi l’impostore. Perché è evidente (o sembrerebbe tale) che uno abbia ucciso l’altro. Sottolineo il “sembrerebbe” perché in questo romanzo, più che in altri, bisogna prendere con le molle e diffidare di tutto ciò che viene dato per certo, perché prima o poi assumerà un significato difforme.
Sembrano uguali, due fotocopie, ma poi si scopre, dall’autopsia di quello morto, che porta i baffi posticci e la colorazione del volto è data con un fondotinta. Quindi è l’impostore. A questo punto si scopre però dal raffronto dell’arma (la pistola di Belot ha il caricatore con impressi due segni profondi di lima) che quella che ha sparato e ha ucciso per primo è quella di Belot: perché avrebbe dovuto sparare per primo? Questo è il primo interrogativo, che viene posto. Ma risulterà essere uno dei tanti, quando si conoscerà il resto. Per es., vicino al falso Belot, viene trovata una scatola piena di proiettili aperta: cosa significa? Che stava ricaricando l’arma? E perché? Se davvero si fosse introdotto nell’appartamento, si sarebbe dovuto supporre che fosse armato cioè con la pistola dotata di caricatore pieno, in grado cioè di uccidere il vero Belot. E invece la sua arma è scarica. Ma è anche vero che vi sono bossoli da ogni parte. Ma, guarda caso, anche l’arma di Belot è scarica come se avessero svuotato i caricatori l’uno contro l’altro.
Già questo potrebbe significare un altro interrogativo (nascosto): in quale modo recondito, un poliziotto e un killer, a breve distanza l’uno dall’altro, sparando all’impazzata l’uno contro l’altro, avrebbero causato così poche ferite (anche se mortali) l’uno all’altro? Al morto un colpo in fronte, all’altro uno al corpo ed un altro alla testa. Mah..
A questo punto interviene un altro avvenimento che conferisce ancor meno certezza alla faccenda: il falso Belot possiede la tessera della polizia ufficiale con impressa l’impronta digitale del suo pollice. Perché farsene una falsa, quando avrebbe potuto rubare quella vera? Anche il vero Belot ne ha una con la foto dissimile in un particolare dei capelli con l’altro ma per il resto completamente uguale, e con una impronta digitale diversa. Solo che quando si vuole confrontare le due a quella dell’archivio, si scopre che è scomparsa. Perché?
Tanti perché, troppi.
Belot è ricoverato in condizioni disperate. Nonostante le ferite è ancora vivo, e rantola frasi dissennate o che almeno sembrano tali. Intanto, Riviere fa una scoperta della massima importanza: l’appartamento di Belot è diviso su due piani. La tragedia si è svolta al primo piano; ora lui va a vedere di trovare degli indizi e perquisisce anche il secondo e si trova dinanzi ad una cosa che non sapeva: il piano è diviso secondo la lunghezza in due parti, che formano due mini appartamenti. In fondo all’armadio a muro della casa di Belot trova un pannello con una serratura di sicurezza, e dietro il vuoto: una porta segreta di comunicazione fra i due appartamenti? E perché?
Chi è il misterioso inquilino di Belot? La portinaia, la signora Morin, che prima aveva detto alla polizia che la foto del morto le riusciva familiare ma non sapeva dire lì per lì chi fosse, ha un’illuminazione: è l’inquilino misterioso. A questo punto è chiaro che i due si conoscessero. E perché mai allora il secondo aveva preso le sembianze del primo, che conosceva? Grazie alle chiavi trovate nelle tasche del ferito, riesce ad aprire il pannello e si trova in un miniappartamento anonimo anche se elegante, in cui non trova nulla se non una carta d’identità, in un vestito, che si riferisce a tale Jean Martin abitante al 43ter di Rue Arthur-Rozier, che è in pratica dietro Rue de Crimée: una casa con un piano diviso in due, con una entrata indipendente da quella principale e posta in una via diversa. Perché mai? E perché soprattutto gli armadi delle due case contengono esattamente gli stessi capi, delle stesse misure e dello stesso colore?
Simon Riviére a questo punta fa una scoperta di importanza capitale per il succedersi degli avvenimenti, suffragata da una che viene fatta nell’archivio della polizia: sia lui che un perito della Scientifica scoprono in posti diversi che la foto dello sconosciuto (Jean Martin si è frattanto scoperto che non è mai nato!) non è così sconosciuta. Infatti, la madre di Belot annuncia a Simon che è andato a trovarla per informarla sulle condizioni del figlio, che la foto dello sconosciuto è quella di..suo figlio. Cioè in pratica, si realizza un absurdum : il Belot che si credeva impostore è quello vero, mentre quello vero è un impostore.
Ma a questo punto un assurdo più assurdo si fa avanti: perché mai Belot avrebbe dovuto rasarsi i baffi e inscurirsi la pelle, per assomigliare ad un suo sosia, che a sua volta gli assomigliava precedentemente? Cioè perché tutto questo pasticcio?
La spiegazione la da Picard, amico di Belot e capo di Riviére: fu lo stesso Belot ad imporgliela, il giorno in cui conobbe il suo sosia, un tale Ferroux, ingiustamente accusato di un’appropriazione indebita, che gli assomigliava come una goccia d’acqua. In quel momento Belot capì che facendo fare ad un suo sosia quello che lui avrebbe fatto da quel momento in poi, cioè il capo di una divisione che gli imponeva il lavoro d’ufficio, in seguito ad una promozione, lui, Belot, avrebbe potuto svolgere sotto mentite spoglie delle delicatissime indagini di polizia.
Ecco spiegato il falso Belot, ecco spiegata la sparizione di documenti, e la creazione di una falsa identità poliziesca: era tutto parte di un piano. Ma perché poi il falso Belot ha ucciso quello vero?
E perché il falso Belot, negli attimi prima della morte (perché muore anche lui, in ospedale) ha gridato: “Non lo uccida! Non lo uccida!” e non invece “Non mi uccida!”?
E chi ha consegnato una lettera da parte della Prefettura alla sig.ra Deguise, che si è capito aveva una relazione con Belot? Alla Prefettura tutti negano. Insomma c’è una terza persona che fa di tutto per apparire sulla scena: un complice, un testimone, o..un assassino?
Perché a questo punto, Riviére ponendo occhio a questo fatto avvenuto al tempo della scoperta della divisione del secondo piano, e alle parole del moribondo, pensandoci e ripensandoci e soprattutto ritornando sul luogo del delitto e raccogliendo i bossoli e facendoli comparare, si accorge che essi provengono da una sola arma, e soprattutto capisce perché c’era “buio pesto” a casa della vittima quando aveva trovato i due corpi: se davvero uno dei due avesse sparato all’altro uccidendolo e nel contempo fosse stato ferito mortalmente e per di più alla testa, come avrebbe potuto andare a spegnere il lampadario e chiudere la porta, e perché poi? Se davvero avesse avuto tutte queste forze, le avrebbe spese per cercare di chiedere aiuto. E invece..niente di tutto questo.
La ragione di tutto ciò porta ad una terza persona, X, che avrebbe ucciso i due Belot, il vero ed il falso, e poi messo la pistola accanto al falso Belot. Ma anche qui sorge una domanda spontanea: come avrebbe potuto sparare con una pistola di ordinanza della polizia? Era sua o ne era pervenuta in possesso?
La ragione la si troverà in una storia d’amore finita per sbaglio, e la comprensione delle morti sarà solo la conseguenza del mancato depistaggio da parte di un falso assassino a favore di uno vero. Il finale sarà tragico e tristissimo, e la spiegazione finale, immaginifica, ricostruirà il grande puzzle, ponendo ogni tessera al suo giusto posto.
Innanzitutto diciamo che l’edizione italiana prende un colossale errore di prospettiva nel titolo: intitolando il romanzo “La doppia morte dell’Ispettore Belot”, gli attribuisce un grado che non ha. Belot infatti in questo romanzo, che è il primo, ma anche l’ultimo perché in esso appare da morto, non è più Ispettore ma..Commissario. E del resto è proprio la sua promozione a causare la sua morte, si potrebbe dire. Al di là di questa gaffe..
Claude Aveline, che Michel Lebrune aveva definito véritable novateur du roman de mystère, un humaniste et un grand humoriste”, e di cui Pierre Boileau avrebbe detto che aveva dato al Genere del Romanzo Poliziesco « ses lettres de noblesse », cercò in più occasioni di sghettizzare il romanzo poliziesco, prendendone le difese:
“Il n’y pas de romans nobles appartenant aux Belles-Lettres (qui en décide?) et de romans moins nobles parmi lesquels on range selon l’arbitraire habituel romans populaires, d’aventure, romans policiers”.
Egli tuttavia, pur essendo uomo di studio, di critica, capì che non sarebbe bastata un’opera solo critica del genere per tentare di sdoganarlo, ma sarebbe stato necessario che lui stesso desse il buon esempio, scrivendo un romanzo. Che fosse anche la riprova che anche un fine letterato avrebbe potuto scrivere un romanzo poliziesco, con gusto, ironia ed inventando un problema talmente astruso, che solo con una spiegazione al di là della comprensione umana sarebbe potuto essere spiegato.
Il dotto studioso, il critico cinematografico, il poeta, l’ironico inventore di aforismi, tipo La mort d’autrui soumet le vivant, résigné, aux lois inévitables. La sienne, il la considère comme un assassinat” (=la morte degli altri è una cosa inevitabile, la propria è un assassinio), inventa un romanzo appassionante, teso e vibrante, tortuoso e machiavellico, ma anche profondamente umano, rinnovando al pari di altri maestri dichiarati del poliziesco (Very, Steeman, Boileau, Windry, Lanteaume), il genere. E dipana il velo del mistero con un virtuosismo raro, dando vita ad un continuo gioco di specchi, in cui l’indagine assume i toni di analisi quasi psicanalitica e di una sconcertante ma estremamente vibrante introspezione psicologica.
Aveline, inoltre, per coinvolgere ancor più il lettore nella storia, la umanizza raccontando il dramma dell’Ispettore Riviére, il vero detective della storia, e “ figlioccio” di Belot, che apprende che l’uomo a cui lui è molto legato umanamente, perché grande amico del padre e suo protettore in Polizia, è stato barbaramente ucciso in casa sua. E’ un fatto risaputo (e accettato) che se il protagonista è personalmente invischiato in una indagine, il lettore seguirà con maggior passione l’evolversi della vicenda.
Non solo. Per coinvolgere ancor più il lettore, Aveline immagina egli stesso coivolto nell’azione, in quanto lo scrittore è anche il narratore della storia. In questo si avvicina moltissimo a Van Dine, in quanto lui stesso era il narratore delle vicende di Philo Vance.
Aveline, scrivendo un romanzo poliziesco, con la migliore scrittura possibile, evocando una storia in bilico tra l’assurdo ed l’improbabile, e risolvendola in modo che la soluzione sia l’unica  in grado di ricondurre l’assurdo e l’improbabile ad una dimensione possibile, e infilandoci anche una storia d’amore struggente e risvolti psicologici notevoli, crea quindi un nuovo tipo di romanzo, un romanzo poliziesco “serio”.
Questa serietà del romanzo, lo pone seriamente in contrasto con la letteratura poliziesca del suo tempo, che normalmente (senza toccare i vertici) da massimo risalto al plot a scapito del resto. Qui, invece, tutto ha un proprio ruolo, tutto è necessario: Tutte le figure rappresentate hanno un’anima.
Notate per esempio come riesca a renderci estremamente vicina, con finissima psicologia, l’invidia della portinaia sciatta e sporcacciona, nei confronti di chi, la signora Lesueur, con lei, con una portinaia, non si sbottona, perché è superba : “come se fare un mezzo servizio non fosse come essere una serva” (pag.75).
Inoltre, qui, come una tragedia greca, la storia non si risolve, non ha un finale che riporta il sereno, dopo la tempesta. No. Qui il sereno non ricompare. Anzi..
Infatti la soluzione è amara oltre ogni misura: infatti un tentativo di suicidio si è tramutato in ben altro; e chi doveva essere suicida, diventa, non volendolo, omicida. Poi, c’è qualcun altro che interviene e muta la natura degli eventi, facendo sì che paia che i due Belot si siano sparati l’un l’altro. Solo che..non capisce l’importanza della luce.
Un piccolo, insignificante particolare che ha tutta questa importanza? Forse anche più, ne ha una anche metaforica: la luce dell’appartamento porta la luce sul caso, senza la luce ci sarebbe stato davvero “un buio pesto”.
In questo romanzo tutti i protagonisti di questa assurda vicenda finiscono con il diventare gli alter ego degli eroi omerici prigionieri del fato e dei capricci degli dei, costretti a recitare delle parti e a vivere una tragedia che non riescono ad evitare perché inconsapevolmente ne hanno messo proprio loro, gli ingranaggi in moto. In un certo senso, anche l’assassino non è veramente tale.
Nei romanzi del periodo, nessuno si ferma a contemplare la morte. Essa è solo funzionale alla storia, ma in nessun modo la sua tragedia viene analizzata. Qui invece questo avviene.
La storia quindi perde i connotati di gioco dell’intelligenza, per assumere quelli di analisi dell’anima. In un certo senso, tutto ciò rende la lettura non certo facile, e l’incedere piuttosto pesante.
Per di più, come evocato dallo stesso titolo, qui tutto è doppio, si potrebbe dire che questo di Aveline sia il “trionfo del doppio” nella letteratura poliziesca: Belot vero è un doppio (quello che appare e quello che è); Belot è doppio come persona fisica (il Belot vero e quello falso); la verità di Picard è doppia: la verità non detta e quella rivelata; la casa è un doppio: due piani, due ingressi separati, e un piano diviso in due; l’assassino è doppio: il vero ed il falso; la pistola è doppia, la collezione degli indumenti è doppia, la stessa carta d’identità è doppia; il falso Belot è doppio : la sua vera identità celata e quella falsa assunta e dimostrata agli altri come vera; la storia della signora Diguise è doppia perché ella crede di amare Belot ed invece è innamorata di Ferreux, il falso Belot. Anche l’assassino è doppio: perché prima c’è un falso omicida che fa credere di esserlo e poi il vero omicida. La stessa signora Diguise è doppia perché nella vita reale ha un altro nome, ed è doppiamente doppia in quanto negli ultimi righi della storia si capisce che ella è l’amica in comune (doppia amica) sia del narratore (Aveline) sia del detective (Riviere) tra loro amici.
Finisco con un pensiero dello stesso Aveline, tratto dalla “Doppia nota sul romanzo poliziesco in generale e su questa suite in particolare”:
Quanto al romanzo, suscitò — dopo un unanime elogio della scrittura che mi ha commosso e del quale non ho tenuto nessun conto (questa edizione offre al lettore un testo interamente rifatto) — i commenti più contraddittori. Realizzava e tradiva le promesse della prefazione. Rompe­va con le vecchie formule e non apportava la minima novità. Era «super-poliziesco», algebrico, e sacrificava l’in­treccio alla psicologia. Su due punti, come mi aspettavo, doveva trovare «contro» la maggioranza della giuria.
1° Malgrado la mia affermazione preliminare, avevo voluto scrivere un romanzo poliziesco;
2° il tema del sosia… era incredibile”.

Pietro De Palma

P.S.
Chi volesse sapere di più anche sulle altre opere di Aveline, può andare a rileggere un articolo che scrissi per Sherlock Magazine Web qualche anno fa. ( al link : http://www.sherlockmagazine.it/rubriche/3709 ).

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