sabato 5 novembre 2016

Pierre Boileau – Sei delitti senza assassino (Six crimes sans assassin, 1939) – Trad. Massimo Caviglione – Il Giallo Mondadori N. 3095 del 6 dicembre 2013

Anni fa, mi ricordo che con Igor Longo (ma qualcuno sa dove sia andato a finire?), si parlava anche di Pierre Boileau, un monumento della narrativa poliziesca francese, e dei suoi due maggiori capolavori: Six crimes sans assassin, e Le repos de Bacchus, lamentando la sua colpevole mancanza dagli scaffali dei giallofili più esigenti, se non riferendosi alla sola e vecchiotta edizione de I Grandi Gialli Pagotto.
Pierre Boileau è ai più famoso perché assieme a Thomas Narcejac, formò uno dei più innovativi e solidali connubi letterari del genere poliziesco, firmando innumerevoli capolavori, da Celle qui ne’e`tait plus, 1952(I Diabolici)  a D’entre les morts, 1954 (La donna che visse due volte) a L’Ingenieur aimait trop les chiffres, 1959 (Il quarto colpo) e molti altri. Se tuttavia con l’amico, i romanzi da lui anche firmati, scandagliavano vittime e carnefici, soffermandosi soprattutto su disturbi di personalità, generando quindi una narrativa intensamente psicologica e di suspence, fino a quando li aveva pubblicati con la sua sola firma, cioè fino all’incontro con Narcejac avvenuto in occasione della premiazione del romanzo di quest’ultimo, LaMort est du voyage, al Grand Prix du Roman d’Aventure del 1948, i suoi romanzi erano stati solo esempi mirabili di Romanzo ad Enigma.
Era nato a Parigi nel 1889. Dopo vari mestieri, aveva cominciato a scrivere e collaborare con alcuni giornali, firmando per il giornale “Lectures pour tous” il suo primo racconto col detective  André Brunel: Deux hommes sur une piste, 1932. Da quel momento, scriverà alcuni romanzi tutti col tale personaggio: La Pierre qui tremble, 1934 (La pietra che trema, 1950); La Promenade de minuit,1934 (Uno strano cliente, 1951); Le Repos de Bacchus, 1938 (Il quadro maledetto, 1950); Six crimes sans assassin, 1939 (Sei delitti senza assassino, 1950); Les Trois clochards, 1945 (R.I.E.N., 1950). Dal 1936 al 1942 pubblicò diversi racconti per la rivista Ric et Rac e taluni di essi furono ripubblicati durante la Seconda Guerra Mondiale e l’occupazione della Francia, sotto lo pseudonimo Anicet (non si è mai appurato precisamente se fosse un suo effettivo pseudonimo o un tentativo di altri di sfruttare la sua fama). Dopo la guerra, Boileau pubblicò ancora; L’Assassin vient les mains vides, 1945 (L’assassino invisibile, 1951); La bete du bois sans nom; Sans-Atout en danger, 1949 (L’ultimo proiettile, 1950); Les Rendez- vous de Passy, 1951 (Il fantasma dell’assassinato, 1950). Gli ultimi tre romanzi da lui firmati individualmente, uscirono dopo tuttavia che aveva formato il sodalizio con Narcejac. Morì nel 1989 a Beaulieu-sur-Mer.
Six crimes sans assassin, narra ancora una volta di una tragedia all’interno di un preciso gruppo familiare e del più grande successo di André Brunel investigatore, chiamato, assieme al narratore suo amico, a individuare un assassino invisibile.
Una tragedia si è svolta in un condominio: una donna è stata vista chiamare aiuto, affacciata ad una finestra, ed un attimo dopo, cadere all’indietro, mentre una scena di lotta tra due persone si è intravista alle sue spalle. La gente accorre, e in primis il portiere dello stabile che però, giunto dietro alla porta dell’appartamento presumibilmente teatro della vicenda, si accorge di aver dimenticato il pass-partout; quando ritorna sopra, questa volta con la chiave universale, ed apre la porta, si trova dinanzi una scena terribile: un uomo morto con due ferite da arma da fuoco, una donna agonizzante, che non può essersi ferita da sola, la pistola mancante, e l’assassino…scomparso. Da un appartamento chiuso: la porta di casa è impraticabile perché vi sta armeggiando dietro il portiere e varie altre persone, nelle altre camere non c’è anima viva, le finestre sono ad un’altezza tale che non possono essere utilizzate per la fuga e per di più sono guardate  da chi richiamato dalle grida, non fa altro che scrutarle, e l’unica porta che da sulla scala di servizio, è chiusa dall’interno da un catenaccio. Quindi, da dove è scappato l’assassino?
Alla domanda, apparentemente senza risposta, cercano di rispondere, oltre che Brunel, chiamato in causa da Roland Charasse, suo amico carissimo e avversario nelle aule dei tribunali, tra i primi ad arrivare sulla scena del delitto, e cugino di Marcel Vignaray, la vittima.
La domanda che sorge spontanea dopo aver esaminato la scena del delitto, è che manca Adèle Blanchot, domestica della coppia, che sarebbe dovuta essere lì e che invece non c’è: il commissario ed il portinaio, si recano al sesto piano del palazzo, dove stanno le camere della servitù, ma nella stanza di Adéle non trovano né la donna né altra cosa che serva a dare una traccia. Tuttavia lasciano un poliziotto di guardia.
Un’ora dopo Brunel, il narratore e Charasse vanno a visionare la stanza di Adéle alla ricerca di elementi sfuggiti al commissario, ma Roland, il primo ad entrare nella camera si trova dinanzi ad una terribile scena: Adéle morta sul letto. Dopo un primo istante di sbigottimento, gli altri due raggiungono il compagno e trovano la domestica, anche lei uccisa da un colpo di pistola al cuore.
Il poliziotto di guardia giura e spergiura di non essersi mosso neanche un istante dal suo posto e intanto però un cadavere si è materializzato: dell’assassino ovviamente nessuna traccia. Anche in questo caso non vi è nessuna uscita al di fuori della porta.
Si pensa a questo punto che se è stata uccisa la domestica, stessa sorte potrebbe accadere a Julien Blanchot, il marito, il maggiordomo, che è presso la villa di Vignaray. Gli telefonano e gli dicono di barricarsi in casa, di non aprire a nessuno, finchè non lo andranno a trovare. Quella sera Brunel vuole cercare altri indizi e dà appuntamento a Charasse per il mattino dopo. Tuttavia l’indomani egli non si presenta: allarmati lo vanno a cercare e lo trovano agonizzante nel suo studio, avvelenato. Si recano alla villa quindi con un taxi, Brunel, il narratore ed il Brigadiere Girard della Brigata Speciale, ma alcuni segni premonitori li mettono in allarme: un cavo telefonico tagliato, dei segni di scalfittura della pesante porta dello studio, eppure la porta è chiusa dall’interno; inoltre una pesante scrivania vi è stata sospinta contro dall’interno. Nessuno risponde ai loro richiami. Quando con molta fatica riescono a spalancare la porta, si trovano dinanzi ad un altro cadavere: su un divano giace il povero Julien, ucciso da un colpo di pistola, e dell’assassino nessuna traccia. E anche in questo caso non vi sono uscite che possano averne permesso la fuga.
Ormai ci troviamo dinanzi ad una ecatombe: i due domestici e Marcel Vignaray morti, Simone Vignaray in coma con una pallottola nel fegato, e Roland Charasse avvelenato. Ma l’eccidio non è ancora finito. Infatti nello studio di Vignaray trovano delle tracce di un possibile ricatto: ricevute di più pagamenti per somme rilevanti e un indirizzo, che si ricava essere quello del misterioso ricattatore: si chiama Alfred Rupart.
La casa viene messa sotto sorveglianza, ma proprio quando non c’è nessun poliziotto nelle vicinanze, il narraore ed amico di Brunel assiste, penetrato nella casa di Rupart grazie al pass-partout fornito dalla portinaia già contattata dalla polizia, origliando alla porta, al colloquio tra Rupart ed un misterioso altro individuo, probabilmente l’assassino, del quale Rupart deve aver saputo in qualche modo il nome: i due si stanno dando appuntamento in una villa alle porte di Parigi.
Il narratore cerca di far avvisare l’amico e si reca nel luogo dell’appuntamento dove trova Brunel e poco dopo anche Charasse, ristabilitosi grazie alle cure dei medici: i tre decidono di sorvegliare le tre uscite della villa, ma ad un certo punto sentono sparare, si affrettano ognuno dalla propria uscita verso la villa ma penetrativi, trovano Rupart morto e l’assassino ancora una volta…scomparso.
E’ troppo per Brunel! Pensava di aver trovato finalmente una traccia e si trova in mano un pugno di mosche. Attaccato da tutti, sbeffeggiato e quant’altro, si ripromette che con le sue cellule grigie riuscirà a capre come le cose siano andate: perciò si rinchiude nello studio di casa sua ed ordina al narratore ed al suo maggiordomo, di non disturbarlo per nessuna ragione al mondo. E intanto passano i giorni. Ma alla fine Brunel dice di aver capito chi possa essere. Intanto però l’ecatombe non si ferma, perchè lo stesso Charasse fa leggere agli altri due un plico inviatogli in cui lo si minaccia di morte: morirà anche lui, dentro una Camera Chiusa dall’interno, le cui uniche vie d’uscita saranno sorvegliate da persone guidate.
Brunel riuscirà a dare un nome all’assassino e a spiegare tutto nelle ultime pagine.
Il giudizio comune che la critica riserva per questo titolo è estremamente lusinghiero, soprattutto da parte dellla critica specializzata francofona. Mi preme però sottolineare che se il virtuosismo del plot è veramente notevole (soprattutto per l’epoca), presentando ben 5 Camere Chiuse nello stesso romanzo e quindi un livello di difficoltà molto alto, bisogna anche dire che le 5 situazioni non presentano lo stesso grado di difficoltà (la prima, la seconda e la terza sono notevoli, la quarta e la quinta..puerili). Per di più tra le prime tre, solo la prima è veramente spettacolare, mentre la terza è molto buona e la seconda mi sembra abbia dei difetti, riscontrabili nel grado di difficoltà, veramente altissimo: infatti, la spiegazione vorrebbe convincere il lettore che ci fosse stato il tempo per operare l’illusione, ma esso è veramente poco rispetto all’azione di estrarre il cadavere dal posto dove lo si è infilato, sollevarlo in braccio (si tratta di una donna di 40 anni, non di una bambina!) e poi deporlo sul letto, tutto in una manciata di secondi. Mi sembra che qui Boileau si arrampichi sugli specchi; invece la terza spiegazione è abbastanza convincente (in qualche modo si avvicina alla spiegazione di Carr della Camera Chiusa in He Who Whispers, Il Terrore che Mormora). Inoltre nel caso dell’ avvelenamento, il fatto di descriverlo senza minimamente accennare alla natura del veleno, ma limitarsi a dire che “il caffè era avvelenato”, significa solo deliberatamente imbrogliare il lettore, togliendogli gli indizi concernenti il veleno, come l’assassino se lo sia procurato, e quindi anche la possibilità di trovare testimonianza di chi glielo abbia venduto.
E’ tutto il plot però che risente di un preciso intento: rigettare il romanzo all’inglese, e quindi rigettare: la ricerca dell’alibi (perché nel romanzo non si accenna mai a chi lo avesse), la ricerca del movente o di colui al quale interessi la morte (il cosiddetto Cui prodest) per ricavarne un profitto, la ricerca di indizi (prove materiali, impronte, etc..).
E tutto questo perché in definitiva, la ricerca del colpevole la si ottiene solo risolvendo il rebus: ossia, solo capendo come l’assassino abbia fatto a uccidere, Boileau dice che si riuscirà ad inchiodare l’omicida. Il tutto sullo sfondo di una Parigi del tutto estraniata dalle contingenze belliche, in una dimensione a-storica, quasi che ci volesse rifugiare nella dimensione del sogno per fuggire alla triste realtà di ogni giorno; e riconoscendo un valore assoluto alla figura dell’omicida, rivalutandolo in termini morali, togliendogli ogni vellerità malvagia, e invece assegnadogli la patente di omicida per necessità. E’ come se l’indagine si sostanziasse in una partita a scacchi con l’assassino e le vittime non fossero altro che i pezzi sacrificati necessariamente perchè si realizzasse qualcosa, che a tutti i costi bisogna perseguire (in questo caso, salvare i ricordi della piccola Janine, figlia di Simone Vignaray e dell’assassino).
Tuttavia l’intento di Boileau è nettamente reazionario. Rifugge da tutta la letteratura che fino ad allora era stata prodotta, di marca inglese, rifacendosi espressamente al filone narrativo-avventuroso di Leblanc, Allain & Souvestre, Ponson du Terrail, ma forse in un modo ancor più chiuso: infatti, Leblanc, pur presentando sempre una narrativa di tipo avventuroso-enigmistico, tuttavia crea delle grandi atmosfere, che però mancano in questo romanzo di Boileau. E’ come se l’autore francese avesse deciso, nel 1939, di rifiutare in blocco tutto quello che fino a quel momento era stato prodotto, riconoscendo valore assoluto solo ai suoi miti. Del resto anche talora frasi incidentali e interiezioni, si rifanno a un tempo assai precedente al suo, e manca sia il pur minimo accenno al taglio psicologico delle situazioni, sia la suspence, pur presenti in altri grandi scrittori francesi del periodo (Steeman, Aveline, Simenon). La cosa che più mi sorprende è che, ragionando in siffatta maniera, Boileau, incontrando Narcejac, decidesse di cambiare radicalmente stile.
A latere mi sembra interessante far infine notare come le Camere Chiuse più spettacolari, siano quelle in cui non agisce mai il solo soggetto, ma ne agiscono due: come la prima di questo romanzo, ricorderò quella bellissima di Derek Smith in Whistle Up The Devil  e quella di Carter Dickson in The Third Bullet. Tuttavia ancor di più il merito di Boileau non è tanto quello di aver fatto agire due soggetti, quanto aver invertito la successione logica che chiunque è portato ad instaurare: ponendo in essere un andamento logico opposto a quello che si era seguito fino a quel momento, Boileau attraverso Brunel dimostra come il suo autore di riferimento sia, ancor più di quelli citati precedentemente, Jacques Futrelle: senza l’ausilio di nulla al di fuori del proprio cervello, il vero investigatore è in grado di risolvere l’enigma.
In sostanza, Boileau sarà a sua volta lo scrittore europeo più vicino al modello illusionistico di risoluzione di una Camera Chiusa, proprio di Clayton Rawson.
Solo che Clayton Rawson partirà da Carr, mentre Boileau da Futrelle e Leblanc.

Pietro De Palma

5 commenti:

  1. E' vero: le migliori camere chiuse, con le dovute eccezioni, son quelle dove agiscono due soggetti. Se ci pensi In "Hollow man" l'assassino non potrebbe compiere l'illusione senza il complice, o in quel mezzo capolavoro che è "A graveyard to left". Aggiungerei , qui si totale capolavoro non solo per il delitto impossibile ma per l'atmosfera cupa che riesce a trasmettere al lettore, "The house in Goblin wood" (davvero, ho i brividi a ripensare al finale del racconto).
    Matteo

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  2. Sì quel racconto è un capolavoro assoluto. Ha un'atmosfera nera, di Horror, di follia pura, e si avvicina in questo ad un capolavoro della prima età carriana: It Walks By Night. Anche lì c'è un'atmosfera cupa, forse ancor più che qui: lì cupa e folle è dall'inizio alla fine. Qui invece comincia con una dissacrazione di Merrivale (nota come solo Carr abbioa inserito atmosfere folli, ironiche, dissacranti, drammatiche, inserendo al contempo soluzioni di altissimo virtuosismo! Gli altri si sono avvicinati a Carr (Rawson , Halter) ma nessuno lo ha superato: Rawson è sempre troppo freddo, nonostante secondo me dal punto del virtuosismo della messinscena, Morte dal Cappello a cilindro sia più appagante di Le tre bare. Però nel romanzo di Carr c'è un'atmosfera cupa e avvolgente che manca del tutto in Rawson; così pure in Halter se vi sono atmosfere allo stesso modo grandi e vi sia tragedia, non c'è mai uno stemperamento della tensione in macchiette: Paul non riesce a prendere in giro i propri personaggi, come invece fa Carr. Da un certo punto di vista, la grandezza di The House in Goblin Wood, sta proprio nel raffronto tra una prima parte molto divertente, ed una seconda molto molto cupa. Oltre che nella soluzione che ti lascia attonito. Da quel momento in poi, il paniere per conservarvi le vettovaglie, è la prima cosa che apro per vedere dentro cosa contenga: non si sa mai...

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    1. Esatto, hai colto il punto (stiamo andando off topic rispetto a Boileau ma per il vate Carr questo e altro): la grandezza di JDC, a mio parere, sta anche nel contrasto tra determinate atmosfere e una certa dissacrazione. MI viene in mente l'inizio de "le mie defunte mogli", stavo piangendo dal ridere, o anche l'asta de "il mistero dello scheletro". Tempi comici perfetti, per poi scivolare nel mistero. HM è un personaggio davvero meraviglioso, il migliore dei tre a mio parere. Melodrammatico ai limiti della farsa, geniale quando decide di smettere i panni del buffone. Su rawson dissento in parte: vero che il plot è geniale, uno dei migliori in assoluto, ma a mio parere Hollow man è ineguagliabile, dal punto di vista della complessita' pura. Ti faccio una richiesta (sempre rimanendo off topic :-)): è un po' di tempo che vorrei scrivere qualcosa su "L'automa" (ho anch'io un blog), ma per motivi vari e noiosi non trovo mai il tempo. Perchè non ci regali un bel pezzo su quest'ennesimo capolavoro del vate? Lì gli argomenti da trattare abbondano...
      Matteo

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  3. Ovviamente mi son espresso male, per "Ci regali" intendevo qui su camerechiuse ;-)
    Matteo

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  4. Bah, non so. Forse, se proprio vuoi. Ma prima scriverò un pezzo su un piccolo capolavoro, come "Gideon fell ed il caso dei suicidi". Anche lì c'è una farsetta all'inizio, che è magistrale. E poi il duplice fatto di sangue introduce ad una serie di cosette davvero interessanti. Devo dire in verità che avrei dovuto già scriverci sopra da quest'estate, ma anch'io sto attraversando un periodo di stanchezza.

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